Il ruolo di mediatore nelle dispute balcaniche da parte di Ankara non è una novità ma la voglia di mantenere la pace nell’area poggia su concreti e forti interessi economici e politici
di Marco Siragusa
Roma, 20 marzo 2018, Nena News – Lo scorso 29 Gennaio si è svolto ad Istanbul un incontro trilaterale tra il Presidente turco Erdogan, il suo omologo serbo Alexsandar Vučić e il rappresentante musulmano della presidenza della Bosnia-Erzegovina Bakir Izetbegović. Il summit è stato l’occasione per affrontare due questioni prioritarie per la stabilità della regione balcanica e della politica estera turca nell’area: il rispetto dell’integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina, paese con un’alta presenza musulmana, e gli investimenti infrastrutturali turchi nei due paesi. Entrambe le parti coinvolte ad Istanbul hanno valutato l’incontro molto proficuo, se non addirittura “storico” come espresso da Izetbegović, grazie al reciproco riconoscimento dei diritti territoriali della Bosnia musulmana-croata e della Repubblica Srpska, le due componenti che costituiscono la Bosnia-Erzegovina come stabilito dai controversi Accordi di Dayton del 1995.
Il ruolo di mediatore attivo nelle dispute balcaniche da parte di Ankara non è certo una novità degli ultimi mesi ma ha radici storiche ben più profonde e obiettivi strategici di ampio respiro. Sorge spontaneo quindi chiedersi quali siano gli interessi turchi nell’area e da dove derivi tale protagonismo.
La dissoluzione della Jugoslavia socialista negli anni ’90 e i cambiamenti politici interni portati avanti da Halil Turgut Özal furono per la Turchia l’occasione per l’apertura di un interessante ventaglio di opportunità per tornare a giocare un ruolo centrale nella regione. La nuova politica estera turca si poneva come obiettivo quello di presentare il paese come guida e modello di un Islam moderato in grado di dialogare anche con l’Occidente. La forte presenza musulmana nella regione balcanica (circa 8 milioni e mezzo di musulmani vivono oggi prevalentemente in Bosnia, Kosovo e Albania) attirava l’attenzione di Ankara, interessata a sfruttare non solo la lunga storia comune ma anche e soprattutto la centralità geografica dell’area per il commercio con il resto d’Europa. Durante la guerra in Bosnia del 1992-95 la Turchia agì come protettrice della comunità musulmana tanto a livello mediatico quanto a livello militare, con l’invio di armi e l’aggiramento dell’embargo imposto al paese. Questo provocò un forte peggioramento dei rapporti con la Serbia, ulteriormente aggravati dalla partecipazione ai bombardamenti NATO del 1999. Durante tutto il decennio la Turchia cercò quindi di costruirsi l’immagine di mediatrice, seria ed affidabile, del conflitto e di sostenitrice della diffusione dell’Islam moderato in Kosovo, Albania e Bosnia.
La vittoria dell’AKP alle elezioni del 2002 confermò l’interesse turco nel mantenere la stabilità politica in Bosnia, obiettivo fortemente sostenuto da Ahmet Davutoğlu che considerava la Bosnia “l’avamposto politico, economico e culturale della Turchia per raggiungere l’Europa Centrale”, mentre l’Albania svolgeva il ruolo di “barometro della politica turca balcanica” necessaria per esercitare una certa influenza nella regione.
In questi ultimi quindici anni la politica estera turca nei Balcani si è quindi strutturata attraverso strumenti di soft power. Dal punto di vista politico Ankara ha puntato al superamento dei sentimenti conflittuali derivanti dalle guerre degli anni ’90 tra musulmani e serbi mediante incontri bilaterali e, come nel caso del summit di Gennaio, trilaterali.
Chiaramente la voglia di mantenere la pace nell’area poggia su concreti e forti interessi economici e politici. L’instabilità mediorientale impone infatti ad Ankara la necessità di impedire l’apertura di un nuovo fronte ai confini occidentali che minerebbe il raggio d’azione della sua politica estera rivolta verso l’Europa. Il processo di adesione avviato dai paesi dei Balcani Occidentali ha inoltre offerto un terreno comune su cui lavorare per dimostrare all’UE la propria serietà e affidabilità. La presenza turca nelle missioni ONU in Kosovo e più in generale nelle iniziative rivolte alla regione riconoscono il ruolo fondamentale di Ankara.
L’attenzione turca si è però riversata anche su aspetti che travalicano quelli prettamente politici. Alla luce del fallito colpo di Stato del 2016, attribuito a Fethullah Gulen, l’attuale governo turco sta cercando di limitare l’attività del movimento Hizmet che negli ultimi decenni ha contribuito alla creazione di oltre 40 istituzioni accademiche, tra università e scuole religiose, in tutti i Balcani. Bisognerà capire se nel prossimo futuro l’intento di Erdogan sarà quello di controllarle completamente con uomini a lui fedeli o invece opterà per la loro chiusura. Dato la forte reazione e le ingenti misure repressive attuate nel paese sembrerebbe che l’importanza esercitata da tali istituzioni nella diffusione di un’immagine positiva della Turchia non basterà ad evitarne lo smantellamento. Molto interessante è inoltre l’incredibile diffusione nelle principali televisioni, comprese quelle serbe, di serie tv ambientate ad Istanbul. Questo ulteriore strumento cerca di rendere abituale e familiare la cultura turca presentata come naturale ponte tra quella orientale e quella occidentale, valore presente anche nelle aspirazioni dei popoli balcanici.
Infine, per comprendere gli interessi economici che stanno alla base della politica estera turca nei Balcani, è necessario dare uno sguardo veloce ai dati relativi al commercio e agli investimenti destinati all’area (Albania, Kosovo, ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina). Questi dati ci offrono la misura delle grandi opportunità economiche che i paesi ex jugoslavi possono offrire ad Ankara. Dal 2002 al 2017 le esportazioni turche nella regione sono passsate da circa 350 milioni a circa 2 miliardi di dollari, mentre le importazioni da 38 a 746 milioni di dollari (Turkish Statistical Institute). La crescita esponenziale degli scambi commerciali, con un forte sbilanciamento in favore della Turchia, è favorita dal raggiungimento di accordi bilaterali di libero scambio come quello firmato nel 2013 con il Kosovo, il primo accordo di tale natura sottoscritto dalla regione autonoma.
Stesso andamento è stato registrato per il flusso di investimenti diretti esteri turchi che, nel solo 2016, hanno raggiunto i 100 milioni di dollari (Central Bank of the Republic of Turkey). Tali investimenti sono stati diretti soprattutto verso i settori dell’agricoltura, verso quello bancario, quello energetico e quello infrastrutturale. Quest’ultimo risulta infatti fondamentale per i collegamenti con il resto d’Europa tanto a livello di trasporto su gomma, in cui si inserisce il progetto di costruzione dell’autostrada Belgrado-Sarajevo discussa a Gennaio, quanto a livello aeroportuale, con l’acquisizione ad esempio della concessione dell’aeroporto di Priština, per stimolare gli scambi turistici.
Molti analisti hanno utilizzato il termine “Neo-ottomanismo” per indicare la politica estera turca nei Balcani avviata già all’indomani della fine della guerra fredda. Sebbene la sempre più crescente influenza turca poggi su un portato storico lungo cinque secoli e non certo trascurabile, sembrerebbe che l’obiettivo principale di questa politica sia quello di imporsi a livello internazionale come attore necessario per il mantenimento della stabilità alle porte d’Europa e partecipare alle opportunità economiche che si aprono. Difficilmente infatti la Turchia potrebbe sostituirsi totalmente alle altri grandi potenze globali come l’UE, la Cina o la Russia, sia per una differente capacità di penetrazione e disparità di risorse economiche da destinare all’area sia per la mancanza di alternative concrete all’adesione europea. Certamente, però, questi attori dovranno fare i conti con la forza attrattiva di Ankara tra i musulmani balcanici e con l’evolversi degli equilibri generali nei rapporti tra la Turchia e le grandi potenze. Nena News
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