La radicalizzazione successiva al collasso della Jugoslavia ha portato negli anni la Bosnia a diventare meta di miliziani stranieri. Con l’avvento di al-Nusra e Isis tra Siria e Iraq si è trasformata nella base di partenza
di Marco Siragusa
Roma, 25 giugno 2018, Nena News – Negli ultimi anni il problema del fondamentalismo islamico è tornato ad avere un certo peso nel contesto balcanico. Dalla nascita dello Stato Islamico in Siria e Iraq fino alle prime sconfitte militari del 2016 si è assistito a una costante crescita del numero di soggetti provenienti dai Balcani coinvolti nel conflitto siriano.
La loro adesione al jihad non si è però manifestata solo con la presenza sul campo di guerra ma anche e soprattutto nell’organizzazione capillare di cellule, campi di addestramento, reclutamento militare e ideologico. I paesi maggiormente coinvolti da questi fenomeni sono ovviamente quelli con la più alta presenza di musulmani nel loro territorio come Bosnia-Erzegovina e Kosovo.
Bosnia-Erzegovina
L’Islam può essere considerato come parte integrante della storia della regione, in quanto la sua presenza risale ormai ad oltre cinque secoli fa con l’avanzata ottomana fino alle porte di Vienna.
Durante il periodo della Jugoslavia socialista l’Islam, così come tutte le altre religioni, subì una censura da parte del potere politico ispirato al principio dell’ateismo. Nelle guerre fratricide degli anni ’90 i bosniacchi, termine utilizzato per identificare i bosniaci musulmani, furono perseguitati tanto dai croati (indimenticabile la distruzione del ponte di Mostar da parte delle truppe croate) quanto dai gruppi paramilitari serbi, autori dell’eccidio di Srebrenica dove vennero massacrati oltre 8mila bosniacchi. Il processo di dissoluzione della Jugoslavia socialista, iniziato già prima del conflitto armato, rappresentò l’occasione storica adatta per un ritorno a un Islam più radicale sostenuto dalle potenze del Golfo e in generale dai paesi arabi del Medio Oriente.
La radicalizzazione della comunità islamica nei Balcani venne favorita da una serie di operazioni economiche e militari portate avanti, tra gli altri, dalla Third World Relief Agency (Twra). L’agenzia, con sede a Vienna, poteva contare non solo sul finanziamento diretto dell’Arabia Saudita e di altri paesi come l’Iran, il Pakistan e la Turchia, ma anche e soprattutto sul sostegno di Al Qaeda che puntava a fare della Bosnia la base centrale per le operazioni terroristiche in Europa. Le stime più caute (Strazzari, 2008) parlano di oltre 350 milioni di dollari raccolti dalla Twra tra il 1992 e il 1995 per finanziare militarmente i combattenti musulmani in Bosnia.
Dopo un anno dallo scoppio delle ostilità il reparto El Mudžahedin dell’Armija BiH (l’esercito bosniaco musulmano) poteva contare su quasi 2mila uomini provenienti soprattutto dall’Afghanistan e dal Pakistan. In totale i mujaheddin presenti sul campo di battaglia furono oltre 4mila. Una presenza così importante di combattenti altamente radicalizzati dal punto di vista militare e religioso, unita alle conseguenze della guerra, favorì la diffusione di un Islam di stampo salafita nella regione.
Una volta conclusa la guerra molti dei combattenti islamici rimasero in Bosnia e, con l’aiuto finanziario dei paesi arabi, continuarono nella loro opera di radicalizzazione e reclutamento di uomini da mandare lì dove il jihad lo richiedesse. Il caso più famoso ed eclatante è senza dubbio rappresentato dal villaggio di Gornja Maoca e dal suo fondatore Nusret Imamovic.
Leader del movimento wahhabita in Bosnia, Imamovic contribuì a fare del piccolo villaggio nel nord-est del paese una roccaforte jihadista in cui vigeva la legge islamica e in cui pochi anni fa furono ritrovati numerose bandiere e oggetti inneggianti all’Isis. Imamovic infatti è considerato, insieme con Husein “Bilal” Bosnic, come uno dei principali reclutatori di foreign fighters per Al Nusra in Siria. Nel giro di un decennio quindi la Bosnia si è trasformata da paese di arrivo dei foreign fighters ad uno di partenza, destinazione Stato Islamico in Siria e Iraq.
Secondo i dati riportati in uno studio dell’International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence (ICSR) tra il 2012 e il 2015, periodo di massima espansione dello Stato Islamico, i foreign fighters partiti dalla Bosnia sono stati circa 330. Un numero impressionante se rapportato alla popolazione totale (3,7 milioni). A partire dal 2016 gli spostamenti verso la Siria si sono interrotti quasi del tutto per due motivi. Da un lato le difficoltà militari sempre più evidenti dello Stato Islamico. Dall’altro le istituzioni bosniache hanno adoperato una legislazione particolarmente repressiva nei confronti dei combattenti all’estero nel tentativo, in parte riuscito, di scoraggiare le partenze con pene che partono da un minimo di 3 anni di reclusione. Nena News (continua)