Nella rubrica dedicata ai paesi balcanici oggi trattiamo la questione dell’industria militare, in costante proliferazione dopo l’inizio della guerra in Siria e i rapporti con Turchia e Arabia Saudita. Nella voglia di profitto sparisce la contraddizione: infiammare il conflitto e poi chiudere le porte ai rifugiati siriani
di Marco Siragusa
Roma, 5 giugno 2018, Nena News – Le guerre jugoslave degli anni ’90, considerate come le più violente in territorio europeo dalla Seconda Guerra Mondiale, hanno lasciato una pesante eredità in termini di distruzione, odio etnico e risentimenti nazionalistici. Le conseguenze di quei conflitti influenzano ancora oggi le società della regione che, con estreme difficoltà e risultati spesso insoddisfacenti, stanno provando a relegare la guerra fratricida di quegli anni ai libri di storia.
Un aspetto molte volte trascurato riguardante gli strascichi prodotti dal conflitto è sicuramente quello dell’alta presenza di armi tra i civili. La presenza di numerosi gruppi paramilitari, protagonisti in prima persona delle atrocità commesse durante la guerra, aveva infatti favorito un ingente mercato illegale di armi da fornire alle popolazioni coinvolte per perpetrare una pulizia etnica nei confronti dei popoli “nemici”.
Mentre le milizie serbe si appropriarono degli arsenali militari appartenenti all’esercito jugoslavo, in Croazia e Albania il rifornimento era sostenuto soprattutto dai partner stranieri. Secondo alcuni studi condotti nella regione si stima che le armi in possesso dei civili nei Balcani siano tra le 3,5 e le 6,2 milioni di unità. Un quantitativo enorme che si trasforma spesso in una straordinaria fonte di finanziamento per i gruppi criminali che basano buona parte dei loro traffici proprio sul commercio illegale di armi, non di rado destinate anche alle cellule terroristiche islamiche presenti in Europa come dimostrato dall’utilizzo di kalashnikov “made in Bosnia” nell’attentato a Charlie Hebdo del 2015.
Il mercato delle armi rappresenta un’importante fonte di profitti non solo per i gruppi criminali ma anche per i governi e le imprese statali. Negli ultimi anni infatti, in tutti gli Stati della regione, la produzione e l’esportazione di armi hanno registrato importanti tassi di crescita. I principali esportatori sono la Bosnia-Herzegovina, un paese che già durante il periodo socialista svolgeva il ruolo di produttore, e la Croazia.
In Bosnia il livello delle esportazioni è passato dai circa 50 milioni di euro del 2012 a poco più di 110 milioni del 2017. Una cifra tutt’altro che irrisoria per un paese in grave crisi economica che non può vantare un reale apparato industriale e che rimane in vita grazie alle donazioni internazionali. La crescita dell’industria di guerra, ereditata dal periodo socialista, permette inoltre di mantenere alti i livelli occupazionali nel settore, in un paese in cui la disoccupazione e la povertà della popolazione rappresentano senza dubbio questioni centrali.
In Croazia, tra il 2015 e il 2016, le esportazioni sono raddoppiate passando da 100 ad oltre 200 milioni di euro, per poi calare nell’anno successivo a circa 120 milioni.
L’aspetto più interessante della questione non è però solo il livello economico raggiunto dall’industria di guerra nella regione, che pure ha le sue importanti ripercussioni in termini di Pil e bilancia commerciale, ma è rappresentato dalla destinazione di tali commerci. Non è un caso infatti che la produzione e le esportazioni siano aumentate vertiginosamente a partire dal 2012, anno di esplosione del conflitto siriano.
Ma qual è il legame tra la guerra in Siria e le esportazioni di armi dai paesi balcanici? A partire dal 2014 con l’avanzata dello Stato Islamico in Iraq e successivamente in Siria è stata riconosciuta, attraverso numerosi video e ritrovamenti sul campo, la presenza di armi ex jugoslave nei territori controllati dall’Esercito Libero Siriano così come dalle milizie dei gruppi islamisti, come Ansar al-Sham, Jabhat al-Nusra, e lo Stato islamico (ISIS).
Il Trattato sul commercio delle armi, raggiunto dalle Nazioni Unite nel dicembre 2014, vieta la concessione delle autorizzazioni all’esportazione di armi verso paesi in cui sussistono gravi violazioni dei diritti umani, come nel caso della Siria. Per aggirare il problema il traffico di armi viene gestito e regolato da alcuni dei principali protagonisti del conflitto siriano: Arabia Saudita, Turchia, paesi del Golfo con l’immancabile sostegno statunitense. Il 20% delle esportazioni di armi della Croazia sono infatti dirette verso Riyadh che successivamente, attraverso dei centri militari clandestini in Giordania e Turchia, le fornisce alle opposizioni siriane contro il governo di Damasco. Stesso discorso per quanto riguarda le esportazioni bosniache che vedono l’Arabia Saudita come primo paese importatore, seguito dall’Afghanistan e dalla Turchia.
Il valore complessivo degli acquisti in armamenti da parte di questi paesi da destinare alle opposizioni tra il 2012 e il 2017 è stato pari a circa 1,2 miliardi, provenienti soprattutto dai paesi dell’Europa sud-orientale: Bosnia, Croazia, Serbia, Montenegro, Bulgaria, Repubblica Ceca, Romania e Slovacchia.
Il mercato degli armamenti tra i Balcani e la Siria è stato oggetto di un’indagine da parte del Balkan Investigative Reporting Network (BIRN) che ha svelato tutta la filiera del commercio di armi denunciando pubblicamente il fatto che dalla Serbia partano ogni anno circa 68 aerei carichi di materiale militare verso gli aeroporti del Medio Oriente.
In questo scenario non poteva certo mancare un interessamento da parte di Israele che attraverso la società ATL (Atlantic Technology Ltd) ha partecipato nel 2015, con l’azienda serba CPR Impex, all’acquisto della Montenegro Defence Industry (MDI) per un valore di poco inferiore ai 700mila euro. L’ATL, fondata nel 2009, è oggi una delle principali società nel settore degli armamenti con sede a Tel Aviv. L’acquisto della società montenegrina è stata al centro di un importante inchiesta che ha portato all’arresto di Serge Muller, comproprietario di ATL Bulgaria e già famoso per i suoi traffici di diamanti dall’Africa e di armi destinate ai ribelli islamici in Libia. Le accuse rivoltegli sono quelle di corruzione, riciclaggio di denaro sporco, vendite illegali di armi agli islamici libici e contrabbando di cocaina.
Anche se in termini monetari le esportazioni montenegrine sono piuttosto marginali, l’acquisizione strategica da parte di una società israeliana e una serba della principale industria del Montenegro mostra l’alto interesse di questi paesi verso un settore sempre più remunerativo.
Il ruolo svolto dai paesi dei Balcani appare però quanto meno contraddittorio e paradossale. Da un lato dalle loro fabbriche escono le armi che servono ad alimentare la guerra in Siria, a favore di gruppi terroristici tutt’altro che democratici, dall’altro devono fare i conti con le conseguenze di questa guerra trattandosi dei primi paesi di transito delle rotte migratorie provenienti da est.
Questa profonda contraddizione non sembra preoccupare i governi post-jugoslavi che negli ultimi anni hanno trovato più conveniente, in termini economici e di consenso politico, alzare muri e barriere contro i migranti invece di limitare o interrompere del tutto le esportazioni di armi verso gli scenari di guerra. La frase pronunciata in un’intervista rilasciata un paio di anni fa dall’allora primo ministro serbo Vučić rende chiaro il calcolo economico alla base di queste scelte. In quell’occasione infatti Vučić affermò che “sfortunatamente alcune parti del mondo sono in guerra più che mai e tutto ciò che produci puoi venderlo in qualsiasi parte del mondo”.
Ancora una volta il mantra dei “profitti sopra ogni cosa” sembra guidare le scelte dei governi della regione, senza nessun interesse sulle conseguenze dirette e indirette di queste scelte. Nena News