Nella tradizionale rubrica del sabato sul continente africano vi offriamo due focus: uno sul conflitto in corso in Tigray tra ribelli del Tplf e le forze del premier Abiy Ahmed e uno sul jihadismo nel Sahel, e non solo
di Federica Iezzi
Roma, 12 marzo 2022, Nena News
Etiopia
Solo due anni fa, l’Etiopia rientrava nel gruppo delle ‘buone notizie’. Il primo ministro Abiy Ahmed – vincitore del premio Nobel per la Pace per la fine del conflitto con l’Eritrea – sembrava voltare pagina su decenni di governo repressivo. Invece oggi l’Etiopia entra nell’elenco dell’International Crisis Group, dopo più di un anno di combattimenti tra l’esercito federale di Abiy e le forze della regione settentrionale del Tigray, che hanno dilaniato l’intero Paese.
Le dinamiche del conflitto si sono drammaticamente intensificate. Abiy ha colpito per la prima volta il Tigray nel novembre 2020, a seguito di un attacco a una guarnigione militare da parte del Tigray People’s Liberation Front (Tplf). Le forze federali, supportate dalle truppe eritree, avanzarono rapidamente insieme ai militari della regione etiope di Amhara.
Nei mesi successivi, i leader del Tplf hanno mobilitato i tigrini, allontanando i nemici dalla maggior parte del territorio del Tigray. Hanno quindi formato una fruttuosa alleanza con i ribelli della popolosa regione centrale etiope dell’Oromia, in vista di un assalto alla capitale Addis Abeba.
Una successiva controffensiva delle truppe federali e della milizia alleata, costrinse le forze del Tigray a ritirarsi nella loro regione d’origine. Combattimenti violenti hanno inasprito una disputa che gode di solide basi. Abiy dipinge i leader del Tplf come elementi decisi a distruggere la sua visione modernizzata del Paese. Al contrario, i leader del Tigray chiedono fermamente l’autonomia regionale.
I combattimenti hanno già ucciso decine di migliaia di persone e sradicato milioni di etiopi dalle loro abitazioni. Gran parte del Tigray, a cui sono stati negati gli aiuti dalle autorità federali, si sta avvicinando alla carestia.
I recenti sviluppi sul campo di battaglia potrebbero aver aperto una piccola finestra. I leader del Tigray hanno abbandonato una condizione chiave per i colloqui, quella che le forze di Amhara lascino le aree contese che hanno conquistato nel Tigray occidentale. Alla fine dello scorso dicembre, le autorità federali hanno rinunciato ad un’avanzata verso i territori del Tigray, come fragile compromesso.
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La militanza islamista in Africa
Tra i conflitti da osservare nel 2022, la militanza islamica in Africa occupa un posto di rilievo secondo l’ultimo report dell’International Crisis Group. Gli Stati deboli lottano contro agili fazioni militanti in un vasto entroterra dove i governi centrali hanno poca influenza.
Particolarmente preoccupante rimane la situazione in Sahel, in cui la portata dei combattimenti si è estesa dal nord del Mali, al Niger e alle aree più rurali del Burkina Faso. L’insurrezione del movimento Boko Haram ha fratturato le zone della Nigeria nord-orientale e quelle intorno al lago Ciad.
Nell’Africa orientale, al-Shabab rimane una forza potente, nonostante gli oltre 15 anni di conflitto. Il gruppo detiene gran parte del sud rurale della Somalia e gestisce tribunali ombra.
Sono da osservare anche i nuovi fronti jihadisti nel Mozambico settentrionale e nella Repubblica Democratica del Congo orientale. Gli insorti, che rivendicano una nuova provincia dello Stato Islamico nella regione di Cabo Delgado in Mozambico, hanno intensificato gli attacchi verso forze di sicurezza e popolazione civile. Quasi un milione di persone sono fuggite a causa dei combattimenti.
Dallo scorso novembre, una fazione delle Forze Democratiche Alleate, milizia ugandese che opera da tempo in Congo, è attiva nel nord-ovest del Paese.
Solo lo scorso anno, il governo del Mozambico ha finalmente accettato di far entrare a Cabo Delgado unità rwandesi della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (SADC), invertendo le conquiste dei ribelli.
In Somalia e nel Sahel l’impazienza occidentale potrebbe essere decisiva. Le forze straniere, la missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom), le forze francesi e altre forze europee nel Sahel rimangono alleate contro i jihadisti. Eppure le operazioni militari spesso alienano la gente del posto ed erodono ulteriormente le relazioni tra loro e le autorità statali.
L’approccio incentrato sull’esercito ha per lo più generato più violenza. Se gli sforzi stranieri si esaurissero, le dinamiche del campo di battaglia si sposterebbero senza dubbio a favore dei militanti. In Somalia, al-Shabab potrebbe prendere il potere a Mogadiscio proprio come hanno fatto i talebani a Kabul.
La Somalia ad esempio ha bisogno di riparare le relazioni tra le élite. I governi del Sahel devono migliorare i loro rapporti con i cittadini nelle aree rurali. Nena News
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