Il movimento popolare nato a dicembre chiede un governo civile e rigetta il colpo di stato dell’esercito. La protesta continua contro il nuovo presidente ad interim, il generale Ibn Auf, e sfida il coprifuoco. I manifestanti denunciano: 13 morti ieri
della redazione
Roma, 12 aprile 2019, Nena News – Ieri in Sudan è giunta alla fine una delle più brutali dittature d’Africa, trent’anni di Omar al-Bashir, di crimini di guerra e contro l’umanità. Ma la protesta popolare, scoppiata il 19 dicembre scorso, continua e tenace, non è finita. Centinaia di migliaia di manifestanti stanno sfidando in queste ore il coprifuoco imposto dall’esercito dopo il golpe militare che ieri ha deposto il presidente.
La piazza lo rigetta, lo ha rigettato da subito. Già ieri le proteste erano continuate e oggi si farò altrettanto, fa sapere l’Associazione dei professionisti sudanesi, organizzatrice della mobilitazione: “I leader delle forze armate devono consegnare il potere al popolo. Non accetteremo alcuna autorità diversa da quella civile”, scrive l’Associazione in un comunicato.
E’ la reazione alle prime mosse dell’esercito che ieri ha annunciato lo scioglimento del parlamento e della costituzione del 2005, la creazione di un consiglio di transizione militare e lo stato di emergenza per tre mesi, il tutto all’interno di un periodo di transizione che le forze armate indicano in due anni. Spazio aereo chiuso temporaneamente, coprifuoco notturno e rilascio dei prigionieri politici, le altre tre misure prese subito. Oltre al presidente l’esercito ha arrestato un centinaio di personalità vicine a Bashir, tra cui il premier Mohammed Taher Aila, l’ex ministro della Difesa, Abdel Rahim Mohammed Hussein, il presidente del Partito del Congresso nazionale, Ahmed Harun, e uno dei vice di Bashir, Ali Uthman Mohammed Taha.
La gioia esplosa immediatamente nelle piazze ieri si è presto trasformata in rabbia. E il sit-in iniziato sabato scorso di fronte al quartier generale dell’esercito non è stato smobilitato. Intanto decine di migliaia di persone riempivano le strade della capitale Khartoum, sventolando le bandiere del Sudan: “Il primo è caduto, cadrà anche il secondo”. Il riferimento è chiaro: la giunta militare pare a tutti un proseguimento del regime anti-democratico che per tre decenni ha governato il paese.
Nelle stesse ore a Port Sudan e Kassala i manifestanti aggredivano le sedi dei servizi segreti. Secondo il Central Committee of Sudanese Doctors, l’esercito ha ucciso ieri almeno 13 persone, portando il totale da sabato a 35.
Nel mirino dei manifestanti e dei partiti di opposizione c’è Ahmed Awad Ibn Auf, vicepresidente e ministro della Difesa. “L’operazione ha salvato le strutture politiche ed economiche del vecchio sistema e la nuova giunta non ha fornito nessuna soluzione politica per porre fine alla guerra, realizzare una trasformazione democratica o risolvere la crisi economica”, il commento del segretario degli Affari esteri di Sudan Call.
Parla anche Omer al Degair, segretario del Partito del congresso sudanese: la nota di Ibn Auf (con la quale ieri annunciava l’arresto e la destituzione di Bashir) “non è altro che un tentativo di riprodurre il regime di Bashir che invece deve essere abbattuto con tutti i suoi organi e simboli. Rifiutiamo la formazione del Consiglio militare. I vertici delle forze armate avrebbero dovuto contattarci per ascoltare il nostro punto di vista sul futuro del Sudan”.
Ibn Auf non è certo un volto nuovo per la politica sudanese e regionale: nella sua carriera militare ha frequentato l’accademia del Cairo dove si è formato anche il presidente egiziano al-Sisi. E’ stato direttore dei servizi e vice capo di stato maggiore dell’esercito. “Pensionato” nel 2010, è stato nominato console generale al Cairo prima e ambasciatore poi in Oman. Dal 2015 è ministro della Difesa.
Nei mesi precedenti, quelli della protesta anti-governativa, ha mostrato due volti: da una parte definiva “ragionevoli” le richieste della piazza, dall’altra minacciava il ricorso alla forza per garantire la stabilità. Una stabilità inesistente: la mobilitazione, scoppiata lo scorso dicembre a causa del rincaro folle del prezzo del pane e dei beni di prima necessità, è quasi subito divenuta una sollevazione più ampia contro la leadership del paese. Bashir ha tentato di salvarsi sia incolpando presunti complotti stranieri e le sanzioni internazionali, parlando di una guerra economica da parte degli Stati esteri, sia promettendo riforme economiche e creazione di posti di lavoro per i giovani.
Intanto nelle piazze la repressione uccideva quasi 100 manifestanti e ne arrestava centinaia, alcuni subito sottoposti a processo sotto lo stato di emergenza indetto da Bashir a febbraio: mesi di prigione per violazione del divieto a manifestare. Ma non ha funzionato.
Ci si muove anche sul piano internazionale. Francia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti, Belgio e Polonia hanno chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di riunirsi d’emergenza, mentre l’Unione Africana ha condannato il golpe definendolo incostituzionale. Washington, che da anni ha imposto su Khartoum sanzioni economiche, ha fatto sapere che al momento il processo di rimozione delle restrizioni è stato sospeso: il Dipartimento di Stato ha sospeso i negoziati in corso con Khartoum sulla normalizzazione delle relazioni e ordinato agli impiegati governativi statunitensi di lasciare il paese. Nena News