La città multietnica e ricchissima di greggio è lo specchio delle tensioni interne all’Iraq. Dopo l’arabizzazione di Saddam e la kurdizzazione di Erbil, le comunità presenti si preparano alle conseguenze del voto. Che potrebbero essere armate
di Chiara Cruciati
Roma, 25 settembre 2017, Nena News – Impossibile, girando per il Kurdistan iracheno in questi anni successivi all’occupazione dello Stato Islamico, non notare la differenza abissale tra le grandi città del centro e del nord – Erbil, Dohuk, Suleymaniya – e Kirkuk, a sud. Non solo nel livello di presenza armata dalle strade, è anche una questione di impatto “identitario”: da una parte i poster con i volti dei leader kurdi (quelli del Puk a Suleiymaniya, quelli del Kdp a Erbil), i peshmerga fedeli all’uno o all’altro partito; dall’altra le bandiere del Kurdistan iracheno nelle vie principali e la grande statua di un combattente kurdo all’entrata della città sono intramezzate da quelle dell’Iraq che spuntano da qualche abitazione araba.
La multietnica Kirkuk, come è stata spesso definita perché casa a turkmeni, arabi, kurdi, la ricchissima Kirkuk, è lo specchio del voto che in queste ore interessa la Regione autonoma del Kurdistan. La tensione, raccontano i reporter presenti, è più che palpabile: contesa tra Erbil e Baghdad per le sue immense riserve petrolifere, è la vera cartina di tornasole di quello che potrebbe accadere nel caso di una vittoria del sì.
Nonostante le proteste dei politici locali e di alcuni esponenti delle comunità araba e turkmena, Kirkuk è stata inserita nella lista dei distretti in cui le urne sarebbero state aperte. Generando paura: tantissimi residenti della città hanno fatto la fila in questi giorni nei negozi per acquistare cibo e acqua, nel timore di scontri armati tra peshmerga e milizie sciite. Che sono là, a poca distanza: da tre anni, dal 2014 e dalla cacciata dell’Isis da Kirkuk per mano di Erbil, le zone intorno alla città sono terreno di scontro tra arabi e kurdi, con villaggi come Tuz Khurmatu che sono epicentro dell’avanzata dell’uno o dell’altro.
Ieri Faleh al-Fayad, leader delle Hashed al-Shaabi (le unità sciite di mobilitazione popolare) ha avvertito: “Ci sarà un prezzo alto da pagare per chi ha organizzato il referendum, una provocazione volta a distruggere le relazioni tra arabi e kurdi. Ci saranno conseguenze legali e costituzionali”. Dello stesso tenore, ma opposto, le dichiarazioni di questi giorni del Pak, il partito per la Libertà del Kurdistan, kurdo-iraniano: “Sacrificheremo fino all’ultima goccia di sangue” per mantenere Kirkuk sotto il controllo kurdo.
Le armi non mancano a Kirkuk: ogni comunità, ogni clan ha la sua milizia, che si tratti di arabi, kurdi o turkmeni. I volti del rispettivi leader o simboli sventolano a seconda del quartiere in cui ci si trova: il sole del vessillo del Kurdistan, Hussein il nipote di Maometto o il blu della bandiera turkmena. A monte stanno decenni di confronti etnici passati per la modifica forzata della demografia della città. Negli anni Ottanta Saddam Hussein impose l’arabizzazione della città, cacciando le famiglie kurde residenti da generazioni. Trent’anni dopo è avvenuto il contrario: la kurdizzazione di Kirkuk per mano di Erbil, “vendetta” che ha portato all’allontanamento silenzioso di una parte della comunità araba.
La campagna di Saddam usò le famiglie sciite povere di Karbala, Nassiriya e Najaf a cui offriva una casa e un po’ di denaro per farle trasferire a Kirkuk. Così si ribaltò la demografia interna: dal 50% di kurdi, Kirkuk passò a meno del 30%. Dal 2014 il Krg ha fatto lo stesso, al contrario: soldi agli arabi per convincerli ad andarsene, terreni e appartamenti a famiglie kurde per sostituirli.
Ora il referendum fa temere nuove esplosioni. La paura serpeggia tra le minoranze araba e turkmena: una vittoria del sì potrebbe condurre ad ulteriori espulsioni e a un possibile conflitto armato. “Non ci sono garanzie per i diritti degli arabi se Kirkuk sarà parte del Kurdistan – dice al Time Ramla al-Obaidi, membro del consiglio municipale di cui fanno parte 26 kurdi, 6 arabi e 9 turkmeni – Porterà solo a maggiore marginalizzazione degli arabi in Kurdistan”. Alcuni leader, come Ali Mehdi Sadiq dell’Iraqi Turkmen Front, lo paventano già: l’uso delle armi per impedire il passaggio della città alla Regione autonoma – e chissà, indipendente – del Kurdistan.
Dietro sta il fumoso status di una città strategica per l’Iraq: dopo la caduta di Saddam, la nuova costituzione all’articolo 140 non indica quale entità è sovrana a Kirkuk, ma rimanda la sua definizione ad un momento successivo, ad un referendum locale. Di certo non è parte dei confini del Krg, definiti dopo la fine del regime Baath. Da qui un contenzioso la cui misura è data dalla frequenza con cui si possono incontrare alla periferia della città i fumi neri delle raffinerie petrolifere. Una piana da cui, prima dello Stato Islamico, veniva estratto il 40% del greggio iracheno. Una piana che nasconde 15 miliardi di barili di riserve. Nena News
Chiara Cruciati è su Twitter: @ChiaraCruciati