Non ci sono dubbi sul fatto che la maggior parte dei kurdi voglia l’indipendenza. Ma di che tipo? Se costruisci uno Stato dove i principi democratici sono minati, ti ritrovi con una dittatura
di Choman Hardi – Middle East Eye
Roma, 29 settembre 2017, Nena News – Il referendum per l’indipendenza ha ottenuto grande sostegno tra la comunità kurda, soprattutto dopo che i poteri regionali e internazionali si sono uniti contro questa decisione. La maggioranza dei kurdi crede di aver avuto finalmente l’opportunità di votare per l’autodeterminazione, ponendo fine alla forzata e abusiva incorporazione nell’Iraq dopo la prima guerra mondiale.
Altri ritengono che, nelle attuali circostanze, il referendum non ha altro obiettivo se non quello di allontanare l’attenzione sui fallimenti del Governo regionale del Kurdistan (Krg) nell’arginare la corruzione, fornire sicurezza economica alla sua gente e costruire un sistema democratico.
Guidato dal crollo della fiducia tra Krg e governo centrale di Baghdad, Massoud Barzani, il discusso “presidente” del Kurdistan, ha minacciato di organizzare un referendum per l’indipendenza diverse volte prima di oggi.
Ma nel momento in cui le forze peshmerga e l’esercito iracheno combattono insieme lo Stato Islamico e oltre un milione di rifugiati e sfollati interni vivono in Kurdistan, la decisione di Baghdad di sospendere il 17% del budget federale al Krg – in risposta all’export di petrolio di quest’ultimo – è stato visto come un tentativo di porre la regione del Kurdistan in una crisi economica grave e dunque come un momento opportuno per il voto.
Barzani è stato eletto presidente del Kurdistan nel 2005. Dopo due mandati di quattro anni l’uno, la sua presidenza è stata estesa nel 2013 di altri due anni a condizione che non avrebbe più corso alle elezioni. Ma quando anche l’estensione di due anni è terminata, il 20 agosto 2015, ha rifiutato di andarsene.
Il principale partito di opposizione, Gorran (il movimento per il cambiamento) ha guidato gli sforzi per riformare la legge sulla presidenza che dà al presidente poteri illimitari e per porre fine al mandato illegale di Barzani. Come risultato, Gorran è stato punito dal Kdp di Barzani, il parlamento è stato bloccato e i ministri di Gorran sostituiti.
Cosa ci insegna la storia
Tenere un referendum in un tale contesto è una mossa sospettosa da parte di Barzani che, con la complicità del Puk, ha minato il processo democratico e compiuti passi sempre più autoritari verso la dittatura.
I sostenitori dell’indipendenza sostengono che la democrazia “richieda tempo” e che “non possiamo aspettarci che arrivi in una notte”. Ritengono che, una volta che l’indipendenza sia archiviata, potremo cominciare a lavorare per costruire una democrazia.
Tuttavia, la storia ci insegna un’altra cosa: se costruisci uno Stato dove i principi democratici sono facilmente minabili, ti ritrovi con una dittatura e tali sistemi possono essere cambiati solo con un bagno di sangue. La questione diventa più complicata quando si guarda a cosa serve per costruire uno Stato sostenibile. I critici interni sostengono che per creare uno Stato i prerequisiti della statualità devono essere rispettati. Il Krg è stato fondato nel 1992. Venticinque anni dopo non è ancora riuscito a risolvere problemi elementari come la carenza di acqua e elettricità.
Non riesce a fornire la sicurezza economica di base alla sua gente. Ha un debito di oltre 20 miliardi di dollari. Ha fallito nell’affrontare la corruzione che ingurgita le risorse della regione. E, infine, non ha unificato le forze peshmerga, ancora affiliate a diversi partiti politici.
Grandi passi avrebbe potuto essere compiuti verso la costruzione dello Stato se Barzani si fosse fatto da parte e il parlamento avesse potuto continuare a lavorare. Se lo avesse fatto, sarebbe stato il leader che avrebbe unito la gente invece di dividerla.
Avrebbe potuto rispettare la legge fatta e firmata da Kdp e Puk. Avrebbe potuto dire, come fece Obama quando gli chiesero di un eventuale terzo mandato: “Penso di essere un buon presidente. Penso che se corressi potrei vincere, ma non lo posso fare”. Avrebbe potuto essere un leader ispiratore che usa i suoi poteri – simbolici e non – per unire i peshmerga e contrastare la corruzione.
Ma ha scelto di fare il contrario e con la complicità di altri partiti politici sta conducendo il suo popolo verso lidi peggiori.
“Che la nostra gente muoia”
L’insistenza di Barzani nel prendere decisioni unilaterali verso l’indipendenza pone il pubblico kurdo in una situazione difficile. Chi ha votato no o chi ha rifiutato di votare sarà visto come traditore della causa kurda, mentre chi ha votato sì dovrà assumersi la responsabilità delle conseguenze.
In un’intervista dello scorso giugno con Foreign Relations, Barzani ha risposto così alla domanda sui piani del Krg nel caso in cui il Kurdistan venisse isolato come il Qatar: “Preferiamo morire di fame che vivere sotto l’oppressione e l’occupazione di altri. Se la decisione è presa da un referendum e la reazione sarà il nostro isolamento, che la nostra gente muoia”.
Gli scettici rispondono che non sarà la leadership a morire di fame e guerra, per questo è facile per Barzani usare queste parole. L’assenza delle condizioni basilari alla statualità – infrastruttura economica, istituzioni legislative, esecutive e giudiziarie stabili e indipendenti, forze peshmerga e di sicurezza unite – combinata con la mancanza di sostegno regionale e internazionale ad uno Stato kurdo rende molti kurdi dubbiosi sulle intenzioni di Barzani.
Il suo obiettivo pare essere la sopravvivenza politica, non l’indipendenza kurda. Il referendum è il suo modo per relegare in un angolo la questione della legittimità che pesa sulla sua presidenza, qualcosa che gli costa capitale politico, che smorza le sue prospettive future per un ruolo di leader nella politica kurda. Un Kurdistan indipendente, anche se fallimentare e miserabile, significherà per lui un nuovo inizio.
Ma anche se, nonostante le inadeguate condizioni interne e esterne, Barzani dichiara l’indipendenza, mette a rischio la sicurezza politica e economica del suo popolo.
Non ci sono dubbi che i kurdi vogliano l’indipendenza ma la domanda è quale tipo di indipendenza. Personalmente non credo che la costruzione di uno Stato e la costruzione di una democrazia debbano essere considerate separatamente. Né credo che una dittatura kurda sia meglio di una araba o turca. Dal mio punto di vista essere oppressi dalla tua stessa gente è perfino peggiore.
Lo Stato kurdo, ce ne deve essere uno, avrà un vero significato solo se sarà diverso dal Governo regionale del Kurdistan, lontano dalle sue bandiere e dai suoi fallimenti in termini di democrazia, diritti umani e uguaglianza di genere. La lotta è appena cominciata.
Choman Hardi è nata in Kurdistan e ha trovato rifugio in Gran Bretagna nel 1993. Ha studiato alle università di Oxford, Kent e Londra. Ha svolto la sua tesi di post-dottorato sulle donne sopravvissute al genocidio nel Kurdistan iracheno. Il libro che ne è risultato, “Gendered experiences of genocide: Anfal survivors in Kurdistan-Iraq” (Routledge, 2011), è stato scelto dalla Yankee Book Peddler come Uk Core Title.
Traduzione a cura della redazione