Madrid ha chiesto a Rabat l’arresto e l’estradizione di 11 ex-funzionari di polizia marocchini, accusati di torture e omicidi di 500 saharawi dal 1975 al 1991. Una piccola luce su un’occupazione e un conflitto dimenticati dal mondo
di Giorgia Grifoni
Roma, 13 aprile 2015, Nena News - L’accusa non è delle più leggere: genocidio. A confermarla, è stato giovedì scorso il giudice Pablo Ruz che dall’Audiencia Nacional, il più alto tribunale spagnolo, ha chiesto l’arresto di 11 ex-funzionari marocchini per torture, detenzioni illegali e omicidio su oltre 500 saharawi tra il 1975 e il 1991. Un fascicolo di 40 pagine, frutto dell’inchiesta avviata nel 2007 dall’ex giudice per i diritti umani Baltazar Garzon, che aveva accolto la richiesta di gruppi di attivisti sui 500 casi di saharawi scomparsi nel nulla.
Nel 2007, su 32 ex-funzionari di Rabat individuati dall’accusa come colpevoli, ne rimanevano solo 13: dopo anni di ricerche e testimonianze, dopo la scoperta nel 2013 della fossa comune di Amgala, a circa 150 km a sud-ovest della “capitale” saharawi El-Ayun, l’accusa è riuscita a ricostruire uno scenario fatto di percosse, bruciature, scosse elettriche, violenze sessuali – che in alcuni casi hanno portato alla morte – nel contesto della repressione di ogni forma di dissenso contro Rabat nella ex-colonia spagnola, occupata da re Hassan II nel 1975 e considerata dai marocchini “la storica provincia meridionale” del loro Paese.
Un vero e proprio genocidio, secondo il giudice Ruz, poiché si sarebbe prodotto “in maniera generalizzata un attacco sistematico contro la popolazione civile sahariana da parte delle forze militari e di polizia marocchine”, le cui vittime “presentano una serie di caratteristiche che le distinguono da altri di territori limitrofi”. I crimini, si legge nella sentenza, sarebbero stati commessi “in ragione dell’origine etnica delle vittime”, con la volontà “di distruggere totalmente questo gruppo di popolazione” e “di impossessarsi del territorio del Sahara occidentale”.
Accuse che trovano il loro fondamento nella storia: i saharawi, sudditi spagnoli fino al 1975, chiedevano l’autodeterminazione fin dal 1971 e si erano organizzati politicamente nel Fronte Polisario a partire dal 1973. Alla morte di Francisco Franco, prim’ancora che Madrid si lavasse le mani delle sorti del territorio cedendolo in segreto a Marocco e Mauritania, re Hassan II chiamò il suo popolo a marciare “pacificamente” sulle “storiche province meridionali del Marocco”: così il 6 novembre, mentre oltre 300 mila marocchini partivano da Tarfaya per andare a riprendere il loro sud, i carri armati del re penetravano da est.
Dopo la firma del trattato di cessione il 21 novembre, l’aviazione marocchina cominciò a bombardare i saharawi con il napalm e il fosforo. Circa 100 mila civili e il Fronte Polisario fuggirono verso la frontiera algerina, sistemandosi nella tendopoli di Tindouf e preparando la battaglia. Nel 1976 i guerriglieri rifugiati in Algeria proclamarono la Repubblica Araba Democratica Saharawi e pian piano, grazie al sostegno di Algeri, riuscirono a liberare il 20 per cento del loro territorio storico. Il conflitto, ufficialmente cessato nel 1991 con la supervisione di una missione Onu (Minurso), ufficiosamente continua nei palazzi delle Nazioni Unite per le negoziazioni sul grado di autodeterminazione dei saharawi, in stallo ormai da quasi 10 anni.
Nel frattempo, circa 300 mila marocchini continuano a colonizzare il Sahara Occidentale, ricco di fosfati e dalle coste pescose, con un dispiegamento di polizia talmente grande da costare al Marocco, tra armi, costruzioni e personale impiegato, un terzo della sua crescita annuale. Qui, la repressione del dissenso è all’ordine del giorno, nonostante una nota del ministero degli Esteri di Rabat insista a dire che “i fatti citati risalgono a 25 anni fa, e riguardano un determinato periodo storico e le circostanze legate a conflitti armati di un altro tempo”: Brahim Dahhane, uno dei più noti attivisti saharawi, non è dello stesso avviso. Quarantotto anni, quattro da desaparecido più altri cinque da detenuto, è il presidente dell’Associazione Saharawi per le vittime di gravi violazioni dei diritti umani (ASVDH). “Finalmente – spiega – comincia a rompersi il muro del silenzio. Prima del cessate il fuoco, durante il conflitto vero e proprio, la gente qui veniva lanciata dagli elicotteri, torturata, sepolta viva. La paura era diventata parte della cultura”.
Dal 1998 si è lentamente diffusa la resistenza non violenta e ha preso piede il movimento in difesa dei diritti umani. Internet ha fatto il resto: con la diffusione sul web di prove delle torture subite da parte delle forze marocchine, assieme a filmati di attacchi alle manifestazioni pacifiche e alla realizzazione di reportages sull’oppressione, i saharawi hanno mostrato al mondo cosa significa vivere in una prigione a cielo aperto. “Anche se c’è più consapevolezza – continua Dahhane – la nostra situazione resta impossibile. Non solo per il trattamento che ci riservano le autorità, ma per le discriminazione che subiamo nella nostra terra”. Perché qui il lavoro per i saharawi non c’è. “Vai al centro per l’impiego e ti dicono: certo che c’è il lavoro. A Tangeri. Ci stanno costringendo ad andarcene dalla nostra terra. Ma noi resteremo”.
Ora, alla vigilia della discussione sul Sahara Occidentale al Consiglio di Sicurezza e dopo il monito rivolto dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban-Ki Moon a Marocco e Fronte Polisario per “impegnarsi seriamente” con il suo inviato per raggiungere finalmente un accordo, Rabat si trova di nuovo una gatta da pelare. In un comunicato del ministero degli Esteri il governo marocchino ha espresso “stupore” per una decisione “senza precedenti”, un “nuovo tentativo di far rivivere una vecchia questione, dopo quella del 2007, che si è rivelata inutile ed è stato costellata da gravi errori di fatto e incongruenze al limite del ridicolo”. E se è vero che la sentenza è uno “strumento politico usato in concomitanza con l’annuale sessione dell’Onu sulla questione del Sahara Occidentale”, almeno ha il merito di riportare l’attenzione su un’occupazione ormai dimenticata. Nena News
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