Intervista a Maddalena Avòn, del Centro studi per la pace di Zagabria e dell’iniziativa Welcome!: “Il ministero degli Interni ha limitato l’accesso ai campi a chi svolge un lavoro considerato non necessario: hanno sospeso giochi per bambini, corsi di lingua, attività culturali e sportive. E intorno all’Hotel Porin è stata eretta una recinzione”
di Marco Siragusa
Roma, 4 maggio 2020, Nena News – Con lo scoppio della pandemia di Covid-19, le condizioni di vita dei migranti intrappolati nei Balcani è ulteriormente peggiorata. Sono ormai centinaia le testimonianze e le denunce di quanto avviene oltre i confini europei e specialmente in Serbia e Bosnia-Erzegovina, dove sono ancora bloccati complessivamente più di 15mila persone.
Ma qual è la situazione in Croazia, primo paese “al di qua” dell’Europa e presidente di turno del Consiglio dell’Ue? Ne abbiamo parlato con Maddalena Avòn del Centar za mirovne studije (Centro studi per la pace) di Zagabria e attivista dell’iniziativa Welcome! nata nel 2015 e che raccoglie circa 60 organizzazioni.
Qual era, ancor prima dell’emergenza Covid-19, il comportamento delle autorità croate nei confronti dei migranti che tentavano di attraversare i confini europei?
Già da quando le autorità nazionali ed europee hanno deciso la chiusura del corridoio umanitario nel 2016, la Croazia ha cominciato ad applicare misure violente nei confronti dei migranti. Se altri paesi, come l’Ungheria, hanno costruito un muro per bloccare gli arrivi, la Croazia ha inviato al proprio confine ingenti forze di polizia che hanno messo in pratica i cosiddetti “pushbacks” che equivalgono a veri e propri respingimenti illegali dei migranti.
Alle persone che vengono intercettate all’interno del territorio croato non viene spesso data la possibilità di presentare la domanda di asilo anche se espressamente richiesto dai migranti. La polizia ignora questo diritto riconosciuto a livello nazionale e internazionale e respinge queste persone verso la Bosnia o la Serbia.
Non spetta alla polizia di frontiera decidere se una persona ha diritto o meno. La polizia dovrebbe garantire un interprete e assistenza legale per la formalizzazione della richiesta, che viene poi valutata da una commissione specifica. Tutto questo però non succede. Si può dire che il diritto di asilo in Croazia è inesistente.
I migranti a cui è riconosciuto asilo sono prevalentemente siriani provenienti dalla Turchia, giunti grazie al “resettlement” (reinsediamento), un programma specifico dell’Unhcr, oppure, quando era ancora attivo, al programma di “relocation” (ricollocamento) che distribuiva i titolari del diritto di asilo in altri paesi europei.
Fino a poco tempo fa il ministro degli Interni, Davor Bozinovic, negava i respingimenti. Qual è l’attuale atteggiamento del governo sulla vicenda?
Il ministero ha sempre negato qualsiasi accusa nonostante dopo tre anni ci siano centinaia di denunce da parte di organizzazioni nazionali e internazionali. Diversi poliziotti hanno parlato, in forma anonima, ad alcuni giornalisti denunciando gli ordini ricevuti sul comportamento da adottare. In più il ministro non perde occasione per criminalizzare le azioni delle organizzazioni e accusarci di aiutare i migranti ad attraversare illegalmente il confine.
Più in generale, alle persone che ricevono la protezione internazionale la Croazia garantisce per due anni un alloggio. Dopo il terremoto dello scorso 23 marzo a Zagabria alcune persone si sono trovare in strada perché il loro appartamento è risultato inagibile. Ad altri è scaduto il periodo di garanzia e hanno pure perso il lavoro a causa della pandemia. Chi invece ha ricevuto parere negativo in seconda istanza dovrebbe essere deportata o ricevere un foglio di via che li costringe a lasciare il paese entro pochi giorni. Nessuna delle due cose è al momento possibile e così numerose persone si trovano oggi per strada senza garanzie. Il ministero non ha dato nessuna risposta a questi problemi nonostante le continue richieste e proposte inviate da diverse organizzazioni, tra cui il Centro Studi per la Pace.
Quello che è cambiato in questi anni è stata anche la retorica utilizzata dal governo e dai media. Quando il corridoio era aperto si vantavano per la loro ospitalità e disponibilità, ripetendo frasi come “abbiamo vissuto anche noi la guerra e capiamo cosa significa”. Ora invece, con il cambio di rotta delle politiche europee, la narrazione è completamente diversa.
Cosa sta succedendo adesso durante la pandemia?
In Croazia è stata dichiarata solo l’emergenza sanitaria, non è stato imposto un lockdown totale e non c’è mai stato il divieto di uscire di casa. Fino a metà aprile si è comunque registrato un calo dei movimenti al confine. Chi prova ancora ad attraversare i confini continua a essere respinto dalla polizia croata che non fa certo sconti.
Quello che è venuta meno è l’azione di monitoraggio che viene fatta normalmente. Con la chiusura dei confini questa attività è resa ovviamente più complicata, gli attivisti di Borders Violence Monitoring, per esempio, hanno molte più difficoltà a raggiungere le persone e raccogliere le testimonianze. Secondo quanto si è riusciti a fare in queste settimane, pare che le violenze siano addirittura aumentate da quando sono state adottate le prime misure contro la pandemia.
In Croazia ci sono due centri di accoglienza, l’Hotel Porin a Zagabria che ospita 3-400 persone, e uno a Kutina, a circa un’ora dalla capitale. Esistono poi tre centri di detenzione: uno a Ježevo; gli altri due, definiti centri di transito, a Trilj al confine con la Bosnia e a Tovarnik al confine con la Serbia.
Le strutture sono gestite dal governo mentre i servizi interni sono appaltati a diverse organizzazioni. Il ministero degli Interni ha limitato l’accesso ai campi a tutte le persone che svolgevano un “lavoro non necessario”. L’unica organizzazione, oltre alla Croce Rossa, a cui è permesso entrare è Médecins du Monde che si occupa di fornire assistenza medica e psicologica. Tutte le altre attività come i giochi per bambini, corsi di lingua, attività culturali e sportive, sono sospese.
Tra l’altro, proprio durante l’emergenza, è stata eretta attorno all’Hotel Porin una recinzione. I lavori erano già previsti da tempo ma la tempistica e la mancata comunicazione agli ospiti del centro hanno contribuito ad alimentare un inutile clima di tensione e di razzismo.
Anche i trasferimenti in un altro Stato, previsti dal regolamento di Dublino, sono bloccati. Nella pratica, qualche settimana fa un rifugiato siriano è stato riportato in Croazia dall’Austria. C’erano alcuni dubbi su una sua possibile positività al coronavirus. Le autorità, però, invece di metterlo in isolamento per 14 giorni, lo hanno portato in un centro di detenzione nonostante i centri di accoglienza abbiano zone adibite alla quarantena.
A metà marzo è nata questa nuova piattaforma, Transbalkanska solidarnost (Solidarietà trans-balcanica), che raggruppa centinaia di attivisti e attiviste presenti nella regione. Ci puoi spiegare di cosa si tratta?
Questa iniziativa è nata spontaneamente da singoli attivisti e attiviste e non da organizzazioni, ed è nata in risposta all’immobilità delle istituzioni nel dare risposte alla pandemia per i gruppi più vulnerabili tra cui i migranti. È nata da una lettera, “Nessuno è sicuro finché non lo sono tutti”, scritta per mandare un messaggio alle istituzioni preposte, sia nazionali che internazionali. Secondo noi non è possibile combattere la pandemia senza garantire a tutti le stesse possibilità. Nei giorni passati abbiamo lanciato un’iniziativa sul web, il “Soap bombing”, che consisteva nel mandare l’immagine di un sapone alla mail dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) che si occupa della gestione dei campi migranti in Bosnia-Erzegovina e che ha ricevuto dall’Ue svariati milioni di euro.
Siamo tutti a rischio allo stesso modo ma non tutti abbiamo la possibilità di rispondere allo stesso modo a questo rischio. Non è vero che siamo tutti sulla stessa barca se, mentre noi stiamo a casa nostra, c’è chi vive in campi di 2mila persone spesso senza accesso all’acqua. Sarebbe giusto dotare tutti degli stessi strumenti per far fronte a un rischio che non fa distinzioni. Nena News