La pandemia non ha fermato i trattamenti illegali e violenti nei confronti dei migranti che attraversano la rotta balcanica, in Croazia, Serbia, Slovenia, fino a Trieste. Una “normalità” che non sembra esser messa in discussione dai discorsi sul “nuovo mondo” post Covid-19
di Marco Siragusa
Roma, 8 giugno 2020, Nena News – Le rivolte negli Stati Uniti, scoppiate dopo l’ennesimo assassinio da parte di poliziotti bianchi di un afroamericano, hanno trovato ampio sostegno anche in Europa. Un’Europa che però tende ancora ad autoassolversi e a negare il carattere razzista di molte sue politiche, prima su tutte quella relativa alla gestione dei flussi migratori.
Un loro radicale ripensamento continua a rimanere il grande escluso nei discorsi sulla “ricostruzione europea” alimentati dagli enormi impegni finanziari messi sul piatto da Commissione e Banca Centrale.
Per avere la conferma di ciò è sufficiente passare in rassegna le notizie delle ultime settimane sulle violenze esercitate dalle polizie di frontiera nei Balcani. Come denunciato da diverse organizzazioni internazionali, durante l’emergenza i migranti sono stati vittime di un’ulteriore stretta repressiva giustificata dalla lotta alla diffusione del coronavirus. Il numero di persone presenti nei campi ufficiali è ulteriormente aumentato a causa dei trasferimenti forzati dei migranti accampati in edifici abbandonati, soprattutto al confine croato-bosniaco.
A questo si aggiungeva il divieto di entrata e uscita dai campi che impediva l’acquisto di beni al di fuori di quelli, insufficienti, offerti dalle autorità. L’assenza quasi totale della fondamentale assistenza fornita dai volontari delle ong rendeva la situazione ancora più complicata.
L’allentamento delle misure restrittive non ha migliorato la condizione dei migranti che, al contrario, hanno visto un aumento dei soprusi ai loro danni. Lo scorso 12 maggio, un’inchiesta del The Guardian ha denunciato il trattamento disumano esercitato dagli agenti di polizia croati che, in preda ai fumi dell’alcol e dopo averli picchiati, dipingevano con una bomboletta rossa una croce sulla testa dei migranti, molti dei quali musulmani. Una pratica che ricorda quanto fatto dai nazisti nel secolo scorso.
Il giorno dopo il ministero degli Interni croato ha diffuso una nota in cui parlava di “accuse infondate e tendenziose”, “articoli sensazionalistici privi di obiettività”, rivendicando che “le autorità croate intrattengono eccellenti rapporti con la comunità religiosa musulmana” e addirittura capovolgendo la questione accusando i migranti di “essere pronti a usare tutti i mezzi necessari per raggiungere il loro obiettivo” (superare il confine, ndr).
Dopo anni di denunce, interrogazioni al parlamento europeo e report diffusi da organizzazioni come Border Monitoring Violence Network, il 25 maggio la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha citato in giudizio il governo croato per il respingimento illegale di tre rifugiati siriani, di cui uno minorenne, nel 2018.
I comportamenti della polizia croata non sono casi isolati ma fanno parte di una generale gestione delle frontiere europee profondamente razzista e alimentata dalle istituzioni. Lo dimostra il video diffuso a metà maggio che riprende uomini della polizia del cantone di Una-Sana (Bosnia-Erzegovina) mentre picchiano alcuni migranti all’interno del campo Miral, gestito dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) e finanziato dall’Unione stessa. Sempre in Bosnia, il 2 giugno il ministro della Sicurezza Fahrudin Radončić ha rassegnato le dimissioni. Tra le motivazioni il contrasto nato in seno alla coalizione di governo sul suo piano di deportazione di circa 9.500 migranti.
Clima solo in parte diverso si respira in Serbia dove lo scorso 16 maggio il presidente Aleksandar Vučić ha schierato l’esercito all’esterno di tre campi vicino la città di Šid, a pochi chilometri dalla frontiera con la Croazia. La motivazione addotta è stata quella di proteggere i cittadini dalle molestie e dalle rapine dei migranti.
Spostandosi verso sud la situazione si fa ancora più complicata. Alle già note criticità nelle isole greche si è aggiunta, la settimana scorsa, la decisione del governo greco di sfrattare circa 10mila richiedenti asilo e rifugiati dalle strutture di accoglienza messe a disposizione dal programma ESTIA, finanziato dalla Commissione Europea.
Quanto accade nei Balcani riguarda direttamente anche il nostro paese sia in quanto passaggio verso l’Europa centrale, con Trieste che rappresenta l’ultima tappa della rotta balcanica, sia per le azioni messe in campo. A partire da metà maggio la prefettura di Trieste, in linea con l’indicazione fornita dal ministero degli Interni, ha intensificato le cosiddette “riammissioni informali” verso la Slovenia previste da un accordo del settembre 1996.
La riammissione equivale ad una sorta di respingimento legalizzato che permette al nostro paese di riportare in Slovenia i migranti. L’accordo, la cui legittimità è stata messa in dubbio dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), ammette la riammissione solo per i migranti che “hanno espresso la volontà di non richiedere asilo politico”. Nella pratica, i migranti vengo rispediti oltre confine ancor prima di poter fare richiesta di asilo. Il 25 maggio il prefetto di Trieste Valerio Valenti rivendicava di aver riportato in Slovenia circa la metà dei 72 migranti intercettati la settimana precedente.
In molti casi succede che la Slovenia, guidata da un governo di destra sostenitore di un forte controllo delle frontiere, decida di riportare i migranti in Croazia che, a sua volta, li riporta in Bosnia in una sorta di gioco dell’oca che rende ancor più tragico il “Game”, come viene chiamato il tentativo di oltrepassare i confini verso l’Europa.
“Nulla sarà come prima”. Con questo slogan i governi e le istituzioni europee continuano a promettere un cambio radicale delle politiche adottate negli ultimi anni. Ad oggi però, il razzismo e le violenze contro chi arriva nel nostro continente rimangono gli stessi di sempre. Nena News