Ramy Shaath è un attivista palestinese-egiziano detenuto ormai da due anni con l’accusa di “terrorismo” nei confronti del regime egiziano. In prima linea a Tahrir nel 2011, è coordinatore del ramo egiziano del Bds
di Anna Maria Brancato
Roma, 7 aprile 2021, Nena News – “Non ci lasciano comunicare in libertà e durante ogni visita c’è sempre un poliziotto che controlla il colloquio”. Inizia con queste parole, cariche di apprensione, l’intervista a Céline Lebrun Shaath, moglie di Ramy Shaath, cittadino e attivista palestinese – egiziano.
L’impegno politico a favore del popolo palestinese, portato avanti al Cairo, è costato a Ramy ormai quasi due anni di detenzione e l’accusa pendente di “terrorismo” nei confronti del regime egiziano. Se, da un lato, Ramy condivide l’esperienza della detenzione politica con le migliaia di prigionieri di coscienza attualmente detenuti nelle carceri egiziane; dall’altro, non si può non sottolineare come nel suo caso la repressione dell’attivismo per la causa palestinese venga attuata da e in un paese arabo.
Ramy si è sempre speso per la lotta del suo popolo, grazie anche a un contesto familiare in cui la politica si poteva respirare quotidianamente. È, infatti, figlio di Nabil Shaath, figura di spicco dell’Autorità Nazionale Palestinese, ed è stato per dieci anni consigliere di Arafat. Alla fine degli anni ’90, la delusione di Oslo l’ha portato ad allontanarsi dalla politica istituzionale e a tornare al Cairo, dove non aveva mai perso i contatti con i movimenti della società civile e i partiti.
In prima linea durante le proteste di piazza Tahrir nel 2011, ha partecipato attivamente alla fondazione del partito Al Dostour e altri movimenti, con lo scopo di promuovere la voglia di libertà e democrazia espressa dal popolo egiziano all’indomani della Rivoluzione. Dal 2015, Ramy è coordinatore della sezione egiziana del BDS Egypt, il movimento internazionale partito dalla società civile palestinese che chiede a individui e istituzioni il boicottaggio economico, finanziario e culturale delle istituzioni del governo israeliano.
Per questo Céline, che ha messo in piedi una campagna internazionale per richiedere la scarcerazione del marito, si dice certa che la causa principale della detenzione siano le sue attività per la Palestina, “le uniche che portava avanti nel periodo precedente il suo arresto”; in particolare, le sue posizioni di condanna della partecipazione egiziana alla Conferenza del Bahrein, fortemente voluta da Trump, e che avrebbe poi definito la strada per il meglio noto Accordo del Secolo, il contributo che l’ex presidente americano ha voluto dare alla chiusura del “processo di pace” israelo-palestinese, già dichiarato fallito da più parti.
Questo stesso Accordo, che ha come fine la normalizzazione delle relazioni tra alcuni paesi arabi e Israele perseguendo un progressivo isolamento dei palestinesi nell’area, pare aver consolidato anche quella condivisione di pratiche repressive che, attraverso l’annullamento del sistema dei diritti, mira a silenziare le voci discordanti che si battono ancora per chiedere giustizia e libertà per tutti i popoli oppressi.
Infatti, il prolungamento senza apparente motivo della detenzione di Ramy, non può non richiamare alla mente le pratiche di detenzione amministrativa del governo israeliano, con cui vengono detenuti in particolare giovani e studenti appartenenti a gruppi, movimenti o partiti palestinesi. L’attacco sferrato al BDS da parte governo egiziano è diventato ancora più evidente con il successivo arresto di Mohamed El-Masry, attivista del movimento fermato due mesi dopo Ramy e ancora oggi in stato di detenzione.
L’Egitto sa di essere sotto osservazione: il Parlamento Europeo a dicembre 2020 ha votato una risoluzione sul deterioramento della situazione dei diritti umani, nella quale non solo “deplora il tentativo delle autorità egiziane di fuorviare e ostacolare i progressi nelle indagini sul rapimento, sulle torture e sull’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni nel 2016”, ma richiede anche la “liberazione immediata e incondizionata delle persone detenute arbitrariamente e condannate per aver svolto le loro attività legittime e pacifiche a sostengo dei diritti umani”, tra cui appunto Ramy Shaath e lo studente dell’Università di Bologna Patrick George Zaki.
Il Gruppo di Lavoro sulla Detenzione Arbitraria del Consiglio Onu per i Diritti Umani ha trasmesso un sollecito alle autorità egiziane per la liberazione di Ramy e di Zyad El-Elaimy (avvocato ed ex parlamentare, anche lui detenuto dal 2019) e la rimozione dei loro nomi dalle liste dei terroristi. Ancora più recente è la dichiarazione di condanna contro il regime di Al-Sisi presentata durante il dibattito del Consiglio ONU per i Diritti Umani (UNHRC) il 12 marzo scorso, firmata da 31 paesi (tra cui Italia, Francia e Stati Uniti), con la quale si condannano le pratiche repressive del Cairo contro attivisti, giornalisti e avvocati in particolare.
Le pressioni internazionali, però, non porteranno ad alcun miglioramento della situazione, se queste stesse firme continueranno a siglare affari con il regime egiziano, in particolare per ciò che concerne il mercato delle armi che, secondo le stime ufficiali del SIPRI, vede crescere le importazioni egiziane del 136%, nel periodo compreso tra il 2016 e il 2020, dunque in piena era Al-Sisi.
Lunedì 29 marzo, qualche giorno dopo la chiacchierata con Céline, la detenzione di Ramy è stata prolungata per la ventitreesima volta e il 9 giugno è fissata la sentenza contro l’inclusione del nome suo e quello degli altri detenuti nelle lista dei terroristi del regime di Al Sisi. La giustizia egiziana è, però, imprevedibile e fa del rinvio la sua più potente arma di controllo e oppressione. Per questo Céline rilancia l’appello internazionale per la scarcerazione di Ramy e invita a firmare la petizione https://act.amnestyusa.org/page/76864/action/1