Il fotoreporter in carcere dal 2013 per aver documentato il massacro di Rabaa, privato delle cure mediche e spesso costretto all’isolamento. Il mondo si sta mobilitando: online campagne di amici, colleghi e egiziani della diaspora
di Pino Dragoni
Roma, 14 marzo 2018, Nena News – Per Mahmoud Abou Zeid (detto Shawkan), trent’anni da poco compiuti in cella, il prossimo 17 marzo sarà l’udienza numero 52. Il 3 marzo la procura ha chiesto la pena di morte per lui e gli altri 738 co-imputati in un maxi-processo politico che va avanti ormai da anni a colpi di infiniti rinvii.
Shawkan è stato arrestato il 14 agosto 2013, durante l’attacco al sit-in di Rabaa al-Adaweiya. In quello che è stato l’atto fondativo della nuova repubblica di al-Sisi, l’esercito aprì il fuoco su una folla per lo più inerme, uccidendo in un solo giorno almeno 600 persone, quasi tutti sostenitori dei Fratelli Musulmani che si opponevano al colpo di Stato.
Di quel massacro Shawkan è stato un testimone. Da giovane fotografo era lì per documentare i fatti di quella piazza per conto dell’agenzia di Londra Demotix. «Chiedere la pena di morte per un fotografo che semplicemente seguiva una manifestazione dell’opposizione è una punizione politica – è il commento di Reporters Sans Frontières – L’unico crimine di Shawkan è quello di aver fatto il suo lavoro di fotografo».
Della sua storia hanno parlato in tanti. Il suo volto e i suoi lunghi capelli ricci, la sua macchinetta fotografica, mimata anche da dietro le sbarre, hanno fatto il giro del mondo grazie alla campagna portata avanti dai suoi amici e colleghi egiziani e da tanti solidali.
Del caso si è occupato nel 2016 anche il gruppo di lavoro Onu sulle detenzioni arbitrarie. Il suo arresto in custodia cautelare ha infatti di gran lunga superato i due anni previsti dalla legge egiziana. L’accanimento nei confronti di Shawkan ha fatto scandalo. Lui stesso in alcune lettere dal carcere denuncia un trattamento peggiore di quello riservato ai Fratelli Musulmani o ai membri dell’Isis.
Continue le ispezioni in cella (due metri per quattro, per tredici persone), restrizioni alle visite di amici e parenti, periodi di isolamento e soprattutto il diniego delle cure mediche: affetto da anemia e epatite C, finora gli è stato sempre negato il ricovero in ospedale.
L’Egitto è il terzo paese al mondo per numero di giornalisti in carcere, secondo solo a Turchia e Cina. Se ne contano più di venti e da quando al-Sisi a gennaio ha annunciato la sua candidatura alle presidenziali altri quattro reporter sono finiti dietro le sbarre.
Da agosto 2016 sono stati bloccati 500 siti internet, compresi la maggior parte dei media indipendenti, che si sono visti costretti a chiudere i battenti o a ridimensionare fortemente la loro attività. Molti dei migliori giornalisti egiziani sono stati così semplicemente ridotti alla fame, spesso costretti all’esilio, ma cosa ancora peggiore privati del proprio mestiere di scrivere. La condanna a morte chiesta per Shawkan e gli altri getta luce su un altro tragico aspetto del regime di al-Sisi.
Il ricorso alla pena capitale, minacciata e sempre più spesso eseguita, è diventato routine negli ultimi anni. Dal 26 dicembre sono già 39 le condanne eseguite per impiccagione. Altre 29 persone attendono nel braccio della morte.
Nella maggior parte dei casi si tratta di civili condannati da corti militari senza il minimo rispetto delle garanzie per un processo equo. Lo denuncia la campagna «Basta pena di morte!» lanciata proprio in questi giorni dall’Egitto per «rompere il silenzio» sul tema, dicono gli organizzatori, e portare «solidarietà umana e legale» alle vittime e alleo famiglie.
È un fenomeno relativamente nuovo, di cui si parla troppo poco, denunciano in un comunicato su Facebook. Per questo vogliono coinvolgere il maggior numero possibile di movimenti e individui, per «aprire un dibattito pubblico» sull’abolizione della pena di morte.
E anche nella diaspora parte una nuova iniziativa di denuncia e sensibilizzazione sulle violazioni dei diritti umani in Egitto. Questa settimana una sessantina di attivisti si riunirà a Washington per una due giorni in cui verranno definite le strategie per una vera e propria attività di lobby rivolta ai membri del Congresso Usa.
«Invece di continuare a sentirci impotenti senza sapere cosa fare possiamo usare i meccanismi democratici e tentare di influenzare i parlamentari affinché facciano pressione sull’Egitto in tema di diritti umani», ha dichiarato ad Al Jazeera Mohamed Soltan, uno dei promotori.
Soltan, doppia cittadinanza americana ed egiziana, che ha vissuto in prima persona la prigionia in Egitto ed è stato scarcerato nel 2015 dopo più di un anno di sciopero della fame, una volta tornato negli Usa ha fondato un’organizzazione a sostegno dei prigionieri politici.
«Speriamo di mettere insieme un po’ di persone fuori dall’Egitto, nella diaspora…per essere la voce di quelli che non hanno voce, o di quelli per cui il costo di avere una voce è semplicemente troppo alto da sostenere». Nena News