Dopo la carneficina di ieri a Sana’a, il timore è di un conflitto interno ai due gruppi islamisti, seppure gli analisti sollevino dubbi sulla responsabilità del califfo. Guerra aperta tra Houthi e presidente Hadi: giovedì gli sciiti hanno bombardato il palazzo presidenziale ad Aden
di Chiara Cruciati
Roma, 21 marzo 2015, Nena News – Il bilancio finale del duplice attacco alle moschee sciite di Sana’a è di 142 morti, centinaia i feriti. In realtà le moschee prese di mira sarebbero state tre: la terza avrebbe dovuto saltare in aria nella vicina città di Sadah, ma qualcosa non ha funzionato e l’attentatore ha fallito.
Tra i morti nelle due moschee della capitale di ieri anche un noto imam e due generali del movimento ribelle Houthi, target degli attentatori. La loro mano sarebbe stata guidata dallo Stato Islamico, dicono su Twitter account riconducibili al califfato, mentre al Qaeda, il potente braccio di Al Qaeda in Yemen, smentisce di avere a che fare con quel massacro. Nelle stesse ore stava rivendicando un’altra operazione: 20 soldati uccisi da miliziani qaedisti nella provincia meridionale di Lahj, dopo l’assalto a uffici dell’intelligence e del governo.
Questo è quello che aspetta uno Yemen già in guerra civile? Una faida interna tra l’Isis e la madre tradita, al Qaeda, che difficilmente permetterà al califfo di allargarsi anche nel paese in cui è più forte e radicata? Per ora gli Usa preferiscono non sbilanciarsi e dicono di non avere alcuna conferma che l’attacco di ieri sia stato organizzato dallo Stato Islamico. Possibile, anzi, dice il portavoce Earnest, che l’Isis cerchi di attribuirsi l’azione a fini di propaganda, dopo l’attacco contro il Museo del Bardo a Tunisi.
I dubbi restano e non sono pochi gli analisti che in queste ore confutano l’ipotesi Stato Islamico: l’Isis non avrebbe ancora nel paese una struttura così radicata e ben organizzata da poter ordire simili attacchi. Più probabile che dietro ci sia al Qaeda, non certo nuova a tale tipo di azione. Resta da capire la ragione della non-rivendicazione del gruppo di Ayman al-Zawahiri, che ieri ha subito preso le distanze da un massacro che ha attirato verso il piccolo paese del Golfo gli occhi del mondo, molto spesso girati da un’altra parte. Insomma, perché perdere l’occasione di tanta visibilità se si fosse il reale responsabile?
Di certo c’è che la carneficina di ieri rientra nel più ampio quadro di un paese diviso tra comunità religiose, sunniti e sciiti, una divisione radicata dalla presenza di gruppi terroristici (spesso finanziati dall’esterno) e dagli interessi economici e strategici dei potenti attori regionali. Che i grandi burattinai della crisi yemenita siano Teheran e Riyadh è difficile da negare: l’Iran appoggerebbe – seppur gli sciiti lo neghino – il movimento Houthi, che controlla il nord e parte del centro; l’Arabia Saudita sostiene il presidente Hadi in esilio a Aden tentando di mantenere viva l’influenza che per decenni ha esercitato sul paese più povero del Golfo.
Eppure a metà marzo, c’era stato un tentativo di avvicinamento dell’Arabia Saudita al movimento ribelle Houthi. Da tempo Riyadh accusa gli sciiti (che da settembre occupano la capitale e da febbraio hanno creato un vero e proprio governo parallelo a quello di Hadi) di essere organizzati e armati dall’Iran. Per i sauditi è quindi necessario limitare l’influenza degli Ayatollah, che si stanno consolidando in tutto il Medio Oriente, a partire dall’Iraq di cui guidano l’esercito nella controffensiva contro l’Isis. Per cui, meglio farsi amici anche i nemici. La scorsa settimana è stata caratterizzata dal tentativo di dialogo tra Houthi e sauditi, con il Consiglio di Cooperazione del Golfo che mediava per aprire il tavolo del negoziato tra sciiti e presidente Hadi proprio a Riyadh.
Se inizialmente la leadership Houthi aveva confermato di aver preso contatti indiretti con l’Arabia Saudita e liberato come atto di buona volontà il premier Baha e i suoi ministri dagli arresti domiciliari, l’idillio è durato ben poco: il timore di un’ingerenza eccessiva dei sauditi (che per anni hanno represso le ribellioni Houthi, che nel 2011 hanno soffocato nel sangue le proteste popolari, hanno aperto e chiuso i rubinetti dei finanziamenti per proprio interesse) spaventa i ribelli. Che hanno risposto con le bombe: giovedì, un giorno prima le stragi in moschea, aerei da guerra Houthi bombardavano il palazzo presidenziale ad Aden, capitale provvisoria del presidente in fuga Hadi. Hadi è stato portato in un posto sicuro, dicono i fedelissimi. Nelle stesse ore l’aeroporto era teatro di durissimi scontri tra Houthi e forze governative, dopo il tentativo dei primi di assumere il controllo dello scalo.
La frammentazione del paese è ormai una realtà, seppur non ufficiale. A pagarne lo scotto una popolazione che vive in miseria, priva di diritti civili, sociali e politici, le cui sorti vengono decise nelle corti arabe. O dalle bombe fatte esplodere dall’estremismo islamico. Nena News
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