Secondo un nuovo rapporto della ong statunitense, i raid aerei della coalizione saudita hanno preso di mira 13 luoghi “essenziali” per l’economia del Paese. La situazione umanitaria, intanto, è grave anche per mancanza dei medici. Ma il presidente Hadi minaccia di boicottare i colloqui di pace
della redazione
Roma, 11 luglio 2016, Nena News – La coalizione a guida saudita avrebbe bombardato industrie, magazzini, fattorie e centrali elettriche durante la sua campagna militare in Yemen “con la volontà di danneggiare il futuro del Paese”. A denunciare nuovamente il blocco sunnita è la ong statunitense Human Rights Watch (HRW). In un rapporto di 59 pagine pubblicato oggi, l’organizzazione non governativa in difesa dei diritti umani sostiene che 17 raid della coalizione che hanno causato l’uccisione di 130 civili e il ferimento di altre 171 persone potrebbero essere considerati “crimini di guerra”. Gli attacchi aerei – sostiene lo studio della ong – hanno preso di mira 13 siti “essenziali” per l’economia yemenita in cui erano impiegati più di 2.500 lavoratori.
La denuncia di Human Rights Watch, affidata a Priyanka Motaparthy, capo ricercatrice della ong nel campo delle emergenze, è dura e inequivocabile: “L’Arabia Saudita e gli altri membri della coalizione non hanno mostrato alcun interesse nell’indagare sui [loro] attacchi illegali e nemmeno nel compensare le vittime per le proprietà perse”.
HRW ha invitato quindi i membri della coalizione (il Bahrain, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto, la Giordania, il Marocco, il Sudan) a compiere una “inchiesta internazionale indipendente” volta a stabilire quanto sia realmente accaduto. La situazione nel Paese è devastante: poche settimane fa il Segretario Onu Ban Ki-Moon aveva avvisato della “precaria condizione” in cui versa l’economia yemenita sottolineando “l’allarmante mancanza di cibo” in molte regioni del Paese. Recentemente alcune ong hanno esortato i governi stranieri a porre fine alle vendite e ai trasferimenti di armi e di attrezzature militari alle forze rivali che si combattono in territorio yemenita.
Alcuni documenti rilasciati da Wikileaks pubblicati poco tempo fa hanno mostrato come Londra e Riyad abbiano siglato un “patto segreto” in modo da assicurarsi entrambe un posto al Consiglio Onu per i diritti umani (Unhrc). L’elezione dei sauditi nel 2013 al Consiglio suscitò scalpore a livello internazionale: Riyad non primeggia (è un eufemismo) nel campo dei diritti umani. A inizio anno, Amnesty International (AI) e Human Rights Watch avevano chiesto la sospensione dell’Arabia Saudita dall’Unhrc alla luce della condotta del regno wahhabita in Yemen. Nella lettera inviata al corpo internazionale, le due ong sostenevano che Riyad aveva usato la sua appartenenza al Consiglio per i diritti umani per “oscusare le violazioni dei diritti umani commesse durante la guerra yemenita”.
Lo scorso mese l’Onu aveva inserito la coalizione saudita in una blacklist per aver causato il 60% di vittime e dei feriti tra i bambini nel Paese. La decisione scatenò le furie di Riyad (e le sue pressioni, come ha ammesso lo stesso Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon) la quale, nel giro di pochi giorni, è riuscita a portare il Palazzo di Vetro a compiere un clamoroso (e goffo) dietrofront.
Accanto ai morti, ai feriti e alla distruzione, la drammatica situazione umanitaria in cui versa il Paese è riassumibile in un altro dato: lo scarso numero di medici rimasti in Yemen. Da quando è iniziata la campagna militare a guida saudita (26 marzo 2015), la maggior parte dei 1.200 operatori sanitari stranieri è scappata da questo poverissimo stato arabo (dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità). Persino quelli che lavorano per “Medici senza Frontiere” (Msf) rischiano seriamente da tempo di morire. A dicembre un raid aereo della coalizione saudita ha colpito una sua clinica mobile ferendo 7 persone. Ma è stato solo l’ultimo dei bombardamenti denunciati da Msf in questi 16 mesi di conflitto.
Intervistato dal portale Middle East Eye, il ministro della salute di Sana’a vicino agli houthi, Ghazi Ismail, ha detto che anche i dottori locali si sono dati alla fuga in gran numero. “Abbiamo grandi difficoltà di rimpiazzare i medici stranieri”, ha detto Ismail. “Tuttavia – ha aggiunto – non abbiamo abbastanza alternative: la maggior parte degli operatori stranieri ha abilità specialistiche”. A pagare un prezzo più alto sono i cittadini delle aree rurali: molti dei medici scappati operavano infatti proprio in queste zone.
Dal punto di vista politico, intanto, si acuisce lo stallo diplomatico. Ieri il presidente yemenita Abd Rabbuh Mansour Hadi ha minacciato di boicottare i negoziati di pace con i rivali houthi se l’Onu (con il suo inviato Ould Sheikh Ahmed) dovesse continuare ad insistere su una road map che includa anche i ribelli all’interno del futuro governo di unità nazionale.
La ripresa degli incontri è teoricamente fissata per questo venerdì dopo due settimane di pausa, ma al momento sembra essere molto a rischio. Il divario che separa le due parti continua ad essere profondo: da una parte c’è il governo Hadi (con sede temporanea nella città meridionale di Aden) che vuole ristabilire la sua autorità sull’intero Paese (per buona parte ancora controllato dagli houthi). Dall’altra, invece, ci sono i ribelli che sono pronti a ritirarsi qualora dovesse essere scelto un presidente condiviso.
Secondo dati Onu (ormai datati, ma gli unici ufficialmente disponibili) dall’inizio della guerra yemenita sono state uccise più di 6.400 persone. Nena News
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