L’Isis demolisce il più antico monastero del mondo, Mar Elia, mentre l’Onu dà il bilancio di due anni di “califfato”: 19mila morti, 3 milioni di rifugiati. Provocati dagli islamisti ma anche dai settarismi interni: Amnesty accusa i peshmerga di aver distrutto migliaia di case sunnite
di Chiara Cruciati
Roma, 20 gennaio 2016, Nena News – Mar Elia è scomparso: il più antico monastero del mondo, costruito 1.400 anni fa, nella città di Mosul è stato ridotto in macerie dall’ennesimo brutale attacco dello Stato Islamico. La notizia è giunta oggi, insieme a foto satellitari pubblicate dall’Associated Press che confermano la distruzione. Sarebbe avvenuta oltre un anno fa, tra agosto e settembre 2014. Era sopravvissuto al tempo, ai massacri, alle guerre e all’ultima invasione, quella statunitense: soldati Usa dispiegati nella zona avevano rovinato le mura scrivendoci sopra il nome delle loro unità e messaggi d’amore per le fidanzate oltreoceano.
Fondato da Mar Elia, monaco assiro, il monastero cristiano riportava all’ingresso due parole greche, cri e rho, considerate le prime a citare il nome di Cristo. Una perdita immensa per l’Iraq e per l’umanità che si aggiunge alle barbarie commesse contro i civili: l’ultimo rapporto Onu, pubblicato ieri, ha dato il bilancio della presenza dello Stato Islamico nel paese. Oltre 3500 tra donne e bambini ancora schiavi degli islamisti (per lo più yazidi); 800-900 minori trasformati in soldati a Mosul; 19mila morti dal gennaio 2014 ad ottobre 2015, sia per gli scontri e le violenze che per fame e mancanza d’acqua e medicinali; 40mila feriti; oltre tre milioni di sfollati e rifugiati.
Così lo Stato Islamico reagisce alle perdite subite negli ultimi mesi, a Ramadi e Sinjar, e alla pianificata controffensiva su Mosul. Così l’Isis si prepara a cementare lo spirito dei suoi miliziani, affogati dalla propaganda manichea del “califfato”. Ma questi numeri, insieme alla distruzione di Mar Elia (che si accoda a altri 100 siti storici e religiosi demoliti dall’Isis in tutti i territori occupati), sono il più ampio simbolo dell’Iraq di oggi, paese frammentato in gruppi, etnie, religioni, e devastato non solo dall’avanzata islamista ma anche dai settarismi interni esplosi dopo l’occupazione Usa del 2003.
Quei 19mila morti e quei 3 milioni di rifugiati non sono il prodotto unico delle violenze islamiste, ma anche degli scontri interni, ormai prossimi alla guerra civile. Una tragedia nazionale che con enorme difficoltà può essere superata, visti gli equilibri sul terreno e le violenze in corso tra sunniti, sciiti e kurdi, ognuno interessato a garantirsi il proprio spazio e la propria autorità. E lo spettro della frammentazione – teorizzata dagli Stati Uniti 12 anni fa – si fa sempre più concreto: si moltiplicano i casi di rappresaglie etniche compiute dalle varie forze armate nei confronti dei civili. Succede a Diyala e Anbar dove ai sunniti è impedito di tornare nei propri villaggi dalle milizie sciite, è successo a Tikrit dove gli stessi miliziani hanno compiuto orrendi abusi contro la comunità sunnita residente, è successo a Muqdadiya dove case e moschee sunnite sono state date alle fiamme da uomini armati sciiti come vendetta per gli attacchi dell’Isis in città e a Baghdad.
E succede a Kirkuk e alle comunità del distretto (tra i pù ricchi di petrolio) dove a bloccare i sunniti sono i kurdi. A elencare i casi di violenza è Amnesty International che in un rapporto appena pubblicato accusa i peshmerga di aver distrutto migliaia di case sunnite in almeno 13 comunità nel nord dell’Iraq per impedire il ritorno dei residenti in zone considerate da Erbil proprio territorio. L’associazione ha utilizzato immagini satellitari per dimostrare le accuse: gli attacchi sarebbero stati condotti sia dai peshmerga che da unità yazidi, che oggi cercano vendetta per le violenze terribili subite dall’Isis, superficialmente ed erroneamente accumunato ai civili sunniti.
A tentare di tenere insieme le tante anime irachene è il premier al-Abadi, soprattutto dopo la protesta dei parlamentari sunniti che hanno boicottato le sessioni alla Camera per protestare contro le violenze sciite. Al-Abadi da oltre un anno cerca di evitare la frammentazione definitiva del paese, coinvolgendo i sunniti nella lotta all’Isis e promettendo protezione, ma si scontra con le resistenze delle stesse milizie sciite, legate all’Iran e spesso indipendenti dal governo. La scorsa settimana il premier ha proposto di inserire volontari sunniti tra le fila delle Hashed al-Shaabi, le unità di mobilitazione popolare sciite, ma i risultati sono destinati ad essere scarsi. Nena News