In tre parti vi proponiamo l’analisi del think tank palestinese al Shabaka sugli aspetti economici dell’apartheid in Sudafrica e in Palestina: non solo un sistema di discriminazione razziale legalizzata ma anche un sistema di capitalismo razziale, che oggi si esplica nei limiti del movimento di liberazione sudafricano in termini di diseguaglianze tra minoranza bianca e maggioranza nera, ampio gap tra ricchi e poveri e mancata redistribuzione delle terre
di Haidar Eid e Andy Clarno – Al Shabaka
Roma, 31 agosto 2017, Nena News – Con Israele impegnato a intensificare il proprio progetto di colonialismo di insediamento, l’apartheid è diventata un elemento sempre più importante per comprendere e sfidare il dominio israeliano sulla Palestina storica. Nadia Hijab e Ingrid Jaradat Gassner introducono il convincente argomento per il quale l’apartheid è oggi il principale quadro strategico di analisi. E nel marzo 2017 la Commissione Economica e Sociale per l’Asia Occidentale dell’Onu (Escwa) ha pubblicato un potente rapporto che documenta le violazioni israeliane del diritto internazionale e che conclude come Israele abbia creato un “regime di apartheid” che opprime e domina il popolo palestinese nel suo insieme.
Secondo il diritto internazionale, l’apartheid è un crimine contro l’umanità e gli Stati possono essere ritenuti responsabili delle loro azioni. Tuttavia il diritto internazionale ha dei limiti. Una specifica preoccupazione riguarda le mancanze nella definizione legale internazionale di apartheid.
Poiché la definizione si concentra unicamente sul regime politico, non fornisce basi forti per la critica degli aspetti economici dell’apartheid. Per affrontare tale limite, proponiamo una definizione alternativa che è cresciuta all’interno della lotta in Sudafrica durante gli anni ’80 e ha ottenuto il sostegno degli attivisti a causa dei limiti della decolonizzazione del paese dopo il 1994 – una definizione che riconosce l’apartheid come strettamente connessa al capitalismo.
Questo articolo elenca cosa il movimento di liberazione della Palestina può imparare dalla condizione sudafricana, ossia il riconoscimento dell’apartheid sia come sistema di discriminazione razziale legalizzata che come sistema di capitalismo razziale. Conclude con raccomandazioni sul modo in cui i palestinesi possono affrontare questo duplice sistema al fine di ottenere una pace giusta e durevole, radicata nell’uguaglianza sociale e economica.
Il potere e i limiti del diritto internazionale
La Convenzione Internazionale dell’Onu sulla soppressione e la punizione del crimine di apartheid definisce l’apartheid come un crimine che comporta “atti disumani commessi al fine di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale su ogni altro gruppo razziale e la loro sistematica oppressione”.
Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale definisce l’apartheid un crimine che comporta “un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominio di un gruppo razziale su qualsiasi altro gruppo razziale”.
Basandosi sulla lettura attenta di questi statuti, il rapporto di Escwa analizza la politica israeliana in quattro domini. Documenta la discriminazione legale formale contro i palestinesi cittadini di Israele; il duplice sistema legale nei Territori Palestinesi Occupati; gli inconsistenti diritti di residenza dei palestinesi gerusalemiti; e il rifiuto israeliano a permettere ai rifugiati palestinesi di esercitare il diritto al ritorno. Il rapporto conclude che il regime di apartheid di Israele opera attraverso la frammentazione del popolo palestinese e la sua sottomissione a diverse forme di dominio razziale.
Il potere dell’analisi sull’apartheid è stato mostrato dal modo in cui Israele e Stati Uniti hanno reagito al rapporto. L’ambasciatore Usa all’Onu lo ha condannato e ha chiesto al segretario generale di ripudiarlo. Il segretario generale ha fatto pressioni su Rima Khalaf, capo di Escwa, perché ritirasse il rapporto. Rifiutando di farlo, ha presentato le dimissioni.
L’importanza del rapporto Escwa non può essere esagerato. Per la prima volta, un corpo dell’Onu ha formalmente affrontato la questione dell’apartheid in Palestina/Israele. E il rapporto ha affrontato le politiche israeliane verso il popolo palestinese come un unicum invece che focalizzarsi su un frammento della popolazione. Chiedendo agli Stati membri e alle organizzazioni della società civile di fare pressioni su Israele, il rapporto Onu ha anche dimostrato l’utilità del diritto internazionale come strumento per responsabilizzare i regimi come Israele.
Tuttavia, pur riconoscendo l’importanza del diritto internazionale, è necessario notarne i limiti. Primo, le leggi internazionali sono effettive solo quando riconosciute e applicate dagli Stati e la struttura gerarchica del sistema degli Stati fornisce alcuni di loro del potere di vero. La soppressione rapida del rapporto Escwa ha reso questi limiti chiari. Secondo, c’è una più specifica preoccupazione riguardante la definizione internazionale di apartheid, come notato prima. Focalizzandosi solo sul regime politico, la definizione legale non fornisce basi forti per la critica degli aspetti economici dell’apartheid e dunque apre la strada ad un futuro di post-apartheid in cui dilaga la discriminazione economica.
Il capitalismo razziale: i limiti della liberazione sudafricana
Durante gli anni ’70 e ’80, i neri sudafricani furono impegnati in urgenti dibattiti su come intendere il regime di apartheid che stavano combattendo. Il blocco più potente all’interno del movimento di liberazione – l’African National Congress (Anc) e i suoi alleati – ritenevano che l’apartheid fosse un sistema di dominio razziale e che la lotta dovesse incentrarsi sull’eliminazione delle politiche razziste e la richiesta di uguaglianza di fronte alla legge.
I neri radicali rigettavano questa analisi. Il dialogo tra il Black Consciousness Movement e i marxisti indipendenti diedero vita ad una definizione alternativa di apartheid, intesa come sistema di “capitalismo razziale”. I radicali insistevano: la lotta avrebbe dovuto confrontare simultaneamente lo Stato e il sistema capitalista razziale. Se razzismo e capitalismo non fossero stati affrontati insieme, dicevano, il Sudafrica del post-apartheid sarebbe rimasto diviso e ineguale.
La transizione degli ultimi 20 anni ha dato sostegno a questa tesi. Nel 1994 l’apartheid legale è stata abolita e i neri sudafricani hanno ottenuto uguaglianza di fronte alle legge – diritto di voto, diritto a vivere ovunque, diritto di movimento senza permessi. La democratizzazione dello Stato è stato un risultato importante. La transizione sudafricana dimostra la possibilità di una coesistenza pacifica sulle basi dell’uguaglianza legale e del riconoscimento reciproco. Questo rende il Sudafrica così interessante per i palestinesi e per i pochi israeliani che cercano una vita alternativa alla frammentazione e al fallimento di Oslo.
Nonostante la democratizzazione dello Stato, la transizione sudafricana non ha affrontato le strutture del capitalismo razziale. Durante i negoziati, l’Anc ha fatto importanti concessioni per ottenere il sostegno dei bianchi sudafricani e l’élite capitalista. E, più importante, l’Anc ha accettato di non nazionalizzare la terra, le banche e le miniere e ha accettato invece la protezione costituzionale dell’esistente distribuzione della proprietà privata – nonostante la storia di espropriazione coloniale.
Inoltre, il governo dell’Anc ha adottato una strategia economica neoliberale promuovendo il libero mercato, l’industria orientata all’export e la privatizzazione del business di Stato e dei servizi comunali. Come risultato, il Sudafrica post-apartheid rimane uno dei paesi più diseguali al mondo.
La ristrutturazione neoliberale ha condotto all’emersione di una piccola élite nera e una crescente classe media nera in alcune parti del paese. La vecchia élite bianca controlla ancora la stragrande maggioranza della terra e della ricchezza in Sudafrica. La deindustrializzazione e la crescente porzione di popolazione costretta a lavori casuali hanno indebolito il movimento dei lavoratori, intensificato lo sfruttamento della classe operaia nera e prodotto un crescente surplus razziale di popolazione che vive in una disoccupazione permanente e strutturale.
Il tasso di disoccupazione raggiunge il 35%, includendo chi si è arreso e non cerca più lavoro. In alcune aree, il tasso supera il 60% e i posti di lavoro rimasti disponibili sono precari, a termine e con salari bassi.
I poveri neri si trovano di fronte anche alla mancanza seria di terra e di case. Invece di redistribuire la terra, il governo dell’Anc ha adottato un programma basato sul mercato, attraverso cui lo Stato aiuta i clienti neri ad acquistare terra di proprietà dei bianchi. Questo ha portato alla crescita di una piccola classe di proprietari neri ricchi, ma solo il 7,5% delle terre sudafricane è stato redistribuito.
Di conseguenza, la maggior parte dei sudafricani neri rimane senza terre e le élite bianche mantengono la proprietà di buona parte della terra. Allo stesso modo, il costo crescente delle case ha moltiplicato il numero di persone che vive in baracche, edifici occupati e insediamenti informali, nonostante i sussidi statali e le garanzie costituzionali ad un’abitazione dignitosa.
La razza continua a definire l’accesso diseguale a casa, educazione e lavoro nel Sudafrica post-apartheid. Dà anche forma alla rapida crescita di sicurezza privata. Approfittando dalle paure razziali sul crimine, la sicurezza privata è stata l’industria con lo sviluppo più veloce in Sudafrica dopo gli anni ’90. Le compagnie di sicurezza privata e le associazione dei residenti benestanti hanno trasformato i sobborghi storicamente bianchi in comunità fortificate, segnate da muri lungo le proprietà private, cancelli intorno ai quartieri, sistemi di allarmi, pulsanti anti-panico, guardie, ronde di quartiere, video sorveglianza e team armati per la risposta rapida. Questi regimi privatizzati della sicurezza residenziale si fondano sulla violenza e tracciano un profilo razziale per prendere di mira neri e poveri.
Secondo il diritto internazionale, l’apartheid termina con la trasformazione dello Stato razziale e l’eliminazione della discriminazione razziale legalizzata. Eppure anche un esame superficiale del Sudafrica dopo il 1994 rivela le insidie di tale approccio e sottolinea l’importanza di un ripensamento della nostra definizione di apartheid. L’uguaglianza legale formale non ha prodotto una reale trasformazione sociale e economica. Al contrario, la neoliberalizzazione del capitalismo razziale ha consolidato la diseguaglianza creata da secoli di colonizzazione e apartheid.
La razza rimane una forza che guida sia lo sfruttamento che l’abbandono nonostante la patina liberale dell’uguaglianza legale. Le celebrazioni del governo Anc tendono a oscurare gli impatti del capitalismo neoliberista razziale in Sudafrica dopo il 1994.
Le critiche all’apartheid israeliana hanno ampiamente ignorato i limiti delle trasformazioni in Sudafrica. Invece di trattare l’apartheid come sistema di capitalismo razziale, la maggior parte dei critici dell’apartheid israeliana fanno riferimento alla definizione internazionale di apartheid come sistema di dominio razziale. Per esserne sicuri, questi critici sono stati molto produttivi. Hanno perfezionato l’analisi del dominio israeliano, contribuito all’espansione delle campagne del Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) e fornito le basi legali degli sforzi per rendere Israele perseguibile. L’importanza del diritto internazionale come risorsa per le comunità in lotta non dovrebbe essere svenduto.
Ma l’analisi e l’organizzazione può essere spinta oltre intendendo l’apartheid come sistema di capitalismo razziale, invece che basarsi così pesantemente sulle definizioni legali internazionali. Attraverso la valorizzazione diversa delle vite e il lavoro della gente, i regimi di capitalismo razziale intensificano lo sfruttamento e espongono i gruppi marginalizzati a morte prematura, abbandono o eliminazione.
Il concetto di capitalismo razziale, inoltre, sottolinea la reciproca costituzione di accumulazione capitalista e formazione razziale e prevede che non si possa eliminare né il dominio razziale né la diseguaglianza di classe senza attaccare il sistema nel suo insieme.
Intendere l’apartheid come un sistema di capitalismo razziale ci permette di comprendere seriamente i limiti della liberazione del Sudafrica. Studiare il successo della lotta sudafricana è stato altamente produttivo per il movimento di liberazione palestinese; comprenderne i limiti può essere altrettanto produttivo. Sebbene i sudafricani neri hanno ottenuto uguaglianza legale formale, il fallimento nell’affrontare l’economia dell’apartheid pone limiti seri alla decolonizzazione.
In una parola, l’apartheid non è finita, è stata ristrutturata. Fare riferimento esclusivamente alla definizione legale internazionale di apartheid potrebbe condurre a problemi simili in Palestina. Solleviamo la questione come nota di prudenza, con la speranza che possa contribuire allo sviluppo di strategie per affrontare il razzismo israeliano e il capitalismo neoliberista insieme.
(continua)
Traduzione a cura della redazione
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