In tre parti vi proponiamo l’analisi del think tank palestinese al Shabaka sugli aspetti economici dell’apartheid in Sudafrica e in Palestina: non solo un sistema di discriminazione razziale legalizzata ma anche un sistema di capitalismo razziale, che oggi si esplica nei limiti del movimento di liberazione sudafricano in termini di diseguaglianze tra minoranza bianca e maggioranza nera, ampio gap tra ricchi e poveri e mancata redistribuzione delle terre
di Haidar Eid e Andy Clarno – Al Shabaka
Roma, 1 settembre 2017, Nena News – (prima parte qui)
Capitalismo razziale in Palestina/Israele
Guardare all’apartheid attraverso queste lenti permette di capire che il colonialismo di insediamento israeliano opera oggi tramite il capitalismo razziale neoliberista. Negli ultimi 25 anni Israele ha intensificato il suo progetto coloniale di insediamento sotto le spoglie della pace. Tutta la Palestina storica resta soggetta al dominio di Israele che opera frammentando il popolo palestinese.
Oslo ha reso Israele in grado di frammentare ulteriormente i Territori Occupati e di integrare il dominio militare diretto con aspetti di dominio indiretto. La Striscia di Gaza è stata trasformata in un “campo di concentramento” e in un modello di “riserva per nativi” attraverso un assedio mortale e medievale descritto da Richard Falk come “preludio al genocidio” e da Ilan Pappe come un “genocidio incrementale”.
In Cisgiordania la strategia neocoloniale israeliane prevede la concentrazione della popolazione palestinese nelle aree A e B e la colonizzazione dell’Area C. Invece di garantire ai palestinesi libertà e uguaglianza, Oslo ha ristrutturato le relazioni di dominio. In breve, Oslo ha intensificato, invece che rovesciare, il progetto di colonialismo di insediamento di Israele.
La riorganizzazione del dominio israeliano si è realizzata accanto alla ristrutturazione neoliberista dell’economia. Fin dagli anni ’80, Israele ha attraversato una trasformazione fondamentale da un’economia guidata dallo Stato e focalizzata sul consumo interno ad un’economia guidata dalle corporazioni e integrata nei circuiti del capitale globale. La ristrutturazione neoliberista ha generato immensi profitti privati mentre si smantellava il welfare, si indeboliva il movimento dei lavoratori e si aumentavano le diseguaglianze.
I negoziati di Oslo sono stati centrali rispetto a tale progetto. Shimon Peres e l’élite affaristica israeliana affermavano che il “processo di pace” avrebbe aperto i mercati del mondo arabo agli Stati Uniti e al capitale israeliano e facilitato l’integrazione di Israele nell’economia globale. Dopo Oslo, Israele ha subito firmati accordi di libero scambio con Egitto e Giordania.
La ristrutturazione neoliberista ha permesso a Israele di portare avanti la propria strategia coloniale riducendo significativamente la necessità di forza lavoro palestinese. La transizione di Israele verso un’economia high-tech ha diminuito la richiesta di lavoratori per l’industria e l’agricoltura. Gli accordi di libero scambio hanno garantito alle imprese di manifattura israeliane di spostare la produzione dai subappaltatori palestinesi a zone di produzione di export nei paesi vicini.
Il collasso dell’Unione Sovietica seguito alla dottrina neoliberista ha spinto oltre un milione di russi ebrei a cercare occasioni in Israele. E la ristrutturazione neoliberista su scala globale ha fatto arrivare 300mila lavoratori migranti da Asia e Europa dell’Est. Questi gruppi competono oggi con i palestinesi per quel che resta di posti di lavoro a basso reddito. Lo Stato coloniale di insediamento ha dunque usato il neoliberismo per rendere i palestinesi lavoratori usa e getta.
La vita della classe operaia palestinese è diventata via via più precaria. Con accesso limitato al mercato del lavoro in Israele, la povertà e la disoccupazione sono moltiplicate all’interno delle enclavi palestinesi. Sebbene l’Autorità Palestinese (Anp) abbia sempre sostenuto una visione neoliberista dell’economia guidata dal settore privato, rivolta all’export e al libero mercato, ha inizialmente risposto alla crisi di occupazione creando migliaia di posti di lavoro pubblici.
Dal 2007, tuttavia, l’Anp ha seguito un duro programma economico neoliberista che punta al taglio dei posti di lavoro nel pubblico e all’espansione del settore di investimento privato. Nonostante questi piani, il settore privato è rimasto debole e frammentato. I piani per zone industriali lungo il muro illegale di Israele, che penetra dentro i Territori Occupati, è ampiamente fallito a causa delle restrizioni israeliane all’import e l’export e ai costi relativamente alti del costo del lavoro palestinese se comparato all’Egitto e alla Giordania.
Se queste politiche neoliberiste hanno ulteriormente peggiorato le condizioni di vita della classe bassa palestinese, hanno contribuito alla crescita di una piccola élite nei Territori Occupati composta dalla leadership dell’Anp, da capitalisti palestinesi e da funzionari delle ong. Chi visita Ramallah è spesso sorpreso dal vedere ville, palazzi, ristoranti di lusso, hotel cinque stelle e veicoli di lusso. Non sono i segni di un’economia prospera ma della crescente divisione di classe.
Allo stesso modo una nuova borghesia affiliata a Hamas è emersa a Gaza dal 2006. Il suo benessere dipende dalla calante “industria dei tunnel”, il monopolio dei materiali di costruzione contrabbandati dall’Egitto e dei pochi beni importati da Israele. Sia l’élite di Hamas che quella di Fatah accumulano la loro ricchezza da attività non produttive e sono entrambe caratterizzate dall’assenza di una visione politica. Haidar Eid si riferisce a questo fenomeno come “osloizzazione” della Cisgiordania e islamizzazione di Gaza.
Inoltre, unirsi alle forze di oppressione è divenuto una delle principali opportunità di lavoro a disposizione della maggioranza dei palestinesi, specialmente i più giovani. Sebbene alcuni lavori nell’Anp siano nel sistema educativo e in quello sanitario, la maggior parte si trovano nelle forze di sicurezza dell’Anp. Come dimostrato da Alaa Tartir, queste forze sono designate alla protezione della sicurezza di Israele. Dal 2007 sono state riorganizzate sotto la supervisione degli Stati Uniti. Con oltre 80mila uomini, le nuove forze di sicurezza dell’Anp sono addestrate dagli Stati Uniti in Giordania e dispiegate nelle enclavi in Cisgiordania in stretta collaborazione con l’esercito israeliano. Israele e l’Anp condividono l’intelligence, coordinano gli arresti e cooperano per la confisca di armi.
Insieme, prendono di mira non solo islamisti e gruppi di sinistra ma anche i palestinesi critici di Oslo. Recentemente, il coordinamento alla sicurezza tra Israele e l’Anp ha preceduto l’assassinio dell’attivista Basil al-Araj.
L’unico settore dell’economia israeliana che ha relativamente mantenuto una domanda fissa di lavoratori palestinesi è quello delle costruzioni, a causa per lo più dell’espansione delle colonie israeliane e del muro in Cisgiordania. Secondo un sondaggio del 2011 di Democracy and Workers’ Rights, l’82% dei palestinesi impiegati nelle colonie avrebbe lasciato il proprio lavoro se avesse trovato un’alternativa sostenibile.
Ciò significa che due dei soli lavori disponibili per i palestinesi della Cisgiordania oggi sono la costruzione di colonie su terre palestinesi confiscate o l’impiego nelle forze di sicurezza dell’Anp che aiutano Israele a reprimere la resistenza palestinese all’apartheid.
I palestinesi di Gaza non hanno neppure queste “opportunità”. Infatti Gaza è una delle più estreme versioni di lavoro usa e getta strutturale. Lo sfollamento del colonialismo d’insediamento ha trasformato Gaza in un campo profughi dal 1948, quando le milizie sioniste prima e l’esercito israeliano dopo hanno espulso oltre 750mila palestinesi dalle loro città e dai loro villaggi. Il 70% dei due milioni di residenti di Gaza sono rifugiati, un promemoria vivente della Nakba e del diritto al ritorno.
La ristrutturazione politica e economica di Oslo ha permesso a Israele di trasformare Gaza in una prigione dove concentrare e contenere il surplus di popolazione non voluta. E l’assedio israeliano, che si intensifica, dimostra la completa disumanizzazione dei gazawi. Per il progetto coloniale israeliano, le vite palestinesi non hanno valore e la loro morte non è di interesse.
Inoltre e soprattutto, il neoliberismo insieme al progetto di colonialismo di insediamento ha tramutato i palestinesi in popolazione usa e getta. Ciò ha reso possibile a Israele di portare avanti il progetto di concentrazione e colonizzazione. La comprensione delle dinamiche neoliberiste del regime coloniale israeliano può contribuire allo sviluppo di strategie per sfidare l’apartheid non solo come sistema di dominio razziale ma come regime di capitalismo razziale.
(continua)
Traduzione a cura della redazione