Salvo clamorose sorprese, termina oggi ufficialmente il terzo esecutivo Netanyahu. Analisi dell’attuale panorama politico israeliano
di Roberto Prinzi
Roma, 8 dicembre 2014, Nena News – Salvo clamorosi imprevisti, i parlamentari israeliani voteranno oggi per lo scioglimento della Knesset [il Parlamento israeliano, ndr] dando fine ufficialmente alla diciannovesima legislatura. La scorsa settimana il premier Benjamin Netanyahu aveva silurato i ministri della Giustizia e del Tesoro Livni e Lapid aprendo di fatto la crisi del suo esecutivo. Per molti giorni parte della stampa locale ha raccontato di un disperato tentativo da parte del primo ministro di allestire un nuovo governo escludendo i partiti “centristi” HaTnu’a e “Yesh ‘Atid” (guidati rispettivamente da Livni e Lapid) e inserendo gli haredim (ultraortodossi, ndr). Notizie che sono state ripetutamente smentite dai vertici del Likud e dai media di destra che hanno bollato tali possibilità come “speculazioni della sinistra”.
In effetti le chance di vedere un nuovo governo erano apparse sin da subito esigue. Shas (gli ultraortodossi seferditi) ha tutto il vantaggio – sondaggi alla mano – di andare quanto prima alle votazioni e unirsi, solo in uno secondo momento, ad un eventuale nuovo governo di destra. Ma anche “Bibi” (il nomignolo del premier Netanyahu) preferisce lo scenario delle elezioni anticipate viste le tante gatte da pelare. Innanzitutto all’interno del Likud. La commissione centrale del suo partito, infatti, ha indetto per il 6 gennaio le primarie. La bagarre è al momento tra tre candidati: l’uscente primo ministro, il capo del Comitato centrale del Likud Danny Danon, e Moshe Feiglin (l’area più a destra del partito). Una battaglia che, se avesse avuto luogo alcuni mesi fa, avrebbe avuto un esito scontato con la vittoria schiacciante di Bibi. Tuttavia, il vento pare essere cambiato.
Ieri un sondaggio condotto dall’Agenzia sondaggistica Ma’agar Mochot ha rivelato che un Likud guidato dal super falco Feiglin guadagnerebbe 18 seggi (sui 120 totali della Knesset). Un risultato praticamente uguale a quello ottenuto da Netanyahu nelle legislative del 2013. Il problema è che il premier appare avere perso appeal tra gli israeliani. Un altro sondaggio effettuato dal Panels Research per il Jerusalem Post mostra dati per certi versi sorprendenti. A 500 intervistati di età adulta, infatti, è stato chiesto se vogliono che l’uscente premier rimanga in carica dopo il voto. Il risultato è stato significativo: il 60% ha risposto di no mentre solo il 34% ha risposto affermativamente. “Oggi i likudnik [i sostenitori del Likud, ndr] capiscono che anche altri possono ottenere i seggi che Bibi porta al partito” ha detto ad Ha’Aretz un membro del partito che ha preferito rimanere anonimo.
Ma i problemi per Netanyahu non finiscono qui. A disturbarlo ormai da tempo sono le voci della base, sempre più rumorose e numerose, che vorrebbero un ritorno di Gide’on Sa’ar. Sa’ar, ex ministro degli Affari interni, si era ufficialmente ritirato dalla vita politica lo scorso settembre lasciando la Knesset a inizio novembre. Il ministro aveva motivato il suo ritiro adducendo motivi familiari. I maligni, invece, raccontano di divergenze insanabili con il premier. Secondo i dati del sondaggio pubblicato dal Jerusalem Post, Sa’ar avrebbe al momento la meglio (43%) su Netanyahu (38%) nel caso in cui i due si dovessero sfidare alle primarie. Certo, i sondaggi vanno presi con le molle. Soprattutto quelli israeliani spesso suscettibili di repentini cambiamenti. Tuttavia, è innegabile il malessere che provano molti israeliani verso il già tre volte premier. E Bibi l’astuto questo lo sa bene. Conscio dei rischi rappresentati da una eventuale candidatura di Sa’ar (ancora non annunciata), Netanyahu fa pressioni internamente per anticipare le primarie a fine dicembre così da lasciare all’ex collega di partito soltanto questa settimana per ufficializzare la sua presenza.
Ma se nel Likud si stanno verificando interessanti movimenti interni che potrebbero avere conseguenze importanti in vista delle legislative del 17 marzo 2015, non meno noiose sono le divergenze interne tra i sionisti religiosi di “Casa Ebraica”. Sia chiaro, qui il carismatico leader Naftali Bennet non è assolutamente in discussione. I sondaggi, anzi, lo danno in netta ascesa. E se si considera che questa formazione politica, megafono delle istanze dei coloni, aveva già ottenuto un ottimo risultato nel 2013 (12 seggi), si può capire bene la soddisfazione che si respira negli ambienti di “Casa Ebraica”. Qui il problema è rappresentato dalla fazione di Tkuma che nel 2012 ha scelto di unirsi con il partito di Bennet e che ha 4 seggi alla Knesset vantando l’estremista Uri Ariel alla guida dell’importante dicastero delle Costruzioni. A Tkuma non sono andate giù le “aperture” di Bennet verso un elettorato meno religioso e l’idea di partito più “moderno” che “tradisce i valori del sionismo religioso”. Accanto ai dissidi ideologici, gravano, poi, quelli più gretti relativi alla spartizione delle poltrone. Il leader di Casa Ebraica ha deciso di avere liste di partito “aperte” senza riservare alcun posto agli esponenti di Tkuma. Una decisione definita “democratica” dai vertici del partito “perché saranno stesso gli elettori a decidere la lista dei parlamentari che si siederanno alla Knesset”. Una vera e propria sopraffazione, invece, per Ariel e colleghi.
Nonostante le piccole beghe di partito, comunque, la situazione a destra appare al momento abbastanza delineata: Likud, Casa Ebraica e Yisrael Beitenu dello xenofobo Lieberman dovrebbero rappresentare un solido blocco di estrema destra una volta terminate le elezioni. Sebbene qualcuno in Israele abbia ventilato la possibilità di una possibile unione centrista, Lieberman dovrebbe restare saldamente a destra. La vera incognita delle elezioni del 2015 è, piuttosto, rappresentata da Moshe Kahlon.
Kahlon potrebbe essere l’uomo-elezioni. Ex ministro delle Comunicazioni (2009-2013) e del Welfare (2011-2013) del secondo governo Netanyahu, Kahlon è una figura tipica del panorama politico israeliano: il falco trasformato (apparentemente) in colomba. Fuori per scelta nelle elezioni del 2013, Kahlon ha annunciato lo scorso aprile di voler ritornare in politica criticando le scelte economiche di Netanyahu. I sondaggi lo descrivono come la “futura sorpresa” e gli attribuiscono dai 10 a 12 seggi. E’ ovvio che questi dati, se dovessero essere confermati, potrebbero notevolmente condizionare la formazione di qualunque futuro governo. La domanda che molti commentatori locali si pongono è se Kahlon (che dichiarò di voler candidarsi contro l’uscente premier) si alleerà post-elezioni con la destra data per vincente o se, invece, si unirà ai partiti “centristi” formando un grande blocco anti-Bibi. Al momento risulta difficile dirlo. Kahlon resta vago (la sua formazione politica non ha ancora un nome) preferendo cavalcare i temi sociali ed economici che tanta fortuna hanno portato due anni fa a Yesh Atid di Lapid.
A proposito di quest’ultimo, continuano incessanti i contatti tra l’ex giornalista e Tzipi Livni di HaTnu’a. I due, vittime di Netanyahu, mostrano vicinanza su molti temi: da quelli sociali a quelli economici. Ma, soprattutto, simile ad entrambi è l’idea di una Israele, stato sì “ebraico”, ma anche “laico e democratico”. Ad accomunarli, inoltre, sono i sondaggi negativi. Stando agli ultimi dati forniti dalla stampa locale, Lapid dovrebbe perdere una decina di seggi, mentre la leader di HaTnu’a rischierebbe seriamente di scomparire (anche a causa dell’alta soglia di sbarramento). Livni potrebbe, però, trovare rifugio presso i laburisti che negli ultimi giorni la blandiscono promettendole un posto numero due nella lista di partito.
Fa un po’ effetto leggere che lo storico partito laburista israeliano – rivale incallito dei “nemici” del Likud – possa (perfino pensare) di includere tra le sue file una ex likudnist convinta come Livni. E’ il segno della deriva a destra della formazione di centro-sinistra di cui nessuno, tra i tanti suoi leader che si sono succeduti negli ultimi anni, ha voluto assumersi pubblicamente le responsabilità. I laburisti attuali non hanno una visione di società alternativa rispetto alla destra e non propongono nulla, al di là di una retorica stantia, per la risoluzione del conflitto con i palestinesi. Ciononostante, il loro leader Itzahk Hertzog ha provato sabato ad infondere un po’ di ottimismo dichiarando con sicumera che sarà il nuovo primo ministro d’Israele. Purtroppo per lui, allo stato attuale le sue dichiarazioni sono classificabili solo come noiose parole da campagna elettorale.
Di sicuro le imminenti elezioni saranno importanti per la scena politica “araba” (i palestinesi d’Israele, secondo gli israeliani). Divisi e interessati più al mero tornaconto personale a livello locale, i partiti “arabi” dovrebbero unirsi in una unica lista elettorale a causa dell’alzamento della soglia di sbarramento al 3,25% (pari a quattro seggi) deciso quest’anno dal governo Netanyahu. Una sfida difficile quella di mettere insieme partiti ideologicamente così distanti tra loro e in così poco tempo (è stata respinta la loro richiesta di posticipare le elezioni a maggio), ma che, tuttavia, appare l’unica possibilità di sopravvivenza per i palestinesi d’Israele all’interno della Knesset.
Continuano a litigare i loro “fratelli” dei Territori occupati. A scrivere l’ennesimo capitolo della finta unità nazionale è stato ieri il portavoce del ministro della salute. In una conferenza a Ramallah, Osama al-Najjar ha detto che il ministro della salute aveva trasferito alla Striscia di Gaza grandi quantità di medicine e di materiale medico durante l’offensiva militare israeliana. “Tuttavia – ha aggiunto – il ministro non sapeva dove quelle medicine erano state distribuite e chi ne aveva beneficiato. Dopo alcune indagini, abbiamo saputo che importanti esponenti di Gaza le hanno rubate e che, pertanto, non sono mai andate agli ospedali che ne avrebbero urgentemente bisogno”. L’ennesima accusa infamante di Fatah ai rivali islamisti di Hamas i quali, ne siamo certi, non tarderanno molto a rispondere per le rime. Nena News