Le rivendicazione della mobilitazione popolare e il suo possibile sviluppo: di fronte ai giovani iracheni lo spettro di un massacro e quello di una guerra tra Usa e Iran. Ma il ritorno alla normalità è impossibile
di Valeria Poletti
Roma, 6 maggio 2020, Nena News – (per la seconda parte clicca qui)
Dopo che i sadristi hanno bruciato le tende e distrutto gran parte delle installazioni a Tahrir in Baghdad il centro della rivolta si è spostato a Nassiriya. Ma il movimento è più focalizzato sulla costruzione di una “nuova società civile” che pone sullo stesso piano la liberazione dal sistema politico-economico dello sfruttamento, della privazione e dell’emarginazione (qui lo chiameremmo neo-liberismo, o, semplicemente, capitalismo) difeso dalle milizie settarie e l’emancipazione dalla politica istituzionalizzata dell’identità.
«Per i manifestanti iracheni la libertà individuale, in particolare la libertà di non appartenere a un gruppo religioso e settario è considerata essenziale quanto l’uguaglianza economica – scrive Zahra Ali – Il madaniyya sostenuto dai giovani iracheni non è solo il momento “postislamista” che si sta diffondendo in tutta la regione nell’ultimo decennio. Invece, è caratterizzato dall’esperienza traumatica della violenza settaria che l’invasione dello Stato Islamico ha solo aggravato ulteriormente. Pertanto, per i giovani iracheni essere liberi di non credere nella religione o appartenere a una setta è importante quanto essere liberi dalla povertà: entrambi sono vissuti come questioni di vita o di morte».
Un ritorno al futuro in una società “post-islamica” che cancelli i traumi dell’occupazione che ha distrutto le strutture materiali, sociali e politiche, dell’invasione dello Stato Islamico e della guerra che è seguita con la devastazione di Mosul e di tante città nelle regioni del centro sunnita, della dominazione sempre più diretta iraniana che ha contribuito a sprofondare il Paese nella miseria generalizzata.
L’elenco degli obiettivi primari della rivolta è stato pubblicato sul primo numero del giornale del movimento, TukTuk, nato nei primi giorni della protesta e che ha preso il nome dai veicoli a tre ruote usati normalmente come taxi collettivi e divenuti il simbolo della rivoluzione di ottobre perché hanno un ruolo vitale nel quotidiano dei manifestanti, trasportano cibo, acqua, medicine, trasportano i feriti e provvedono ai funerali.
La prima pagina del primo numero di TukTuk riporta un articolo intitolato “Road Map to Save Iraq” che presentava le 10 richieste dei manifestanti: a) le dimissioni immediate del governo; b) l’istituzione di un governo di transizione, in carica per tre mesi, che comprenda figure indipendenti con mani pulite e senza precedenti di appartenenza ad un partito; c) modifiche alla legge elettorale; d) l’istituzione di una commissione elettorale indipendente; e) la pubblicazione delle fonti di finanziamento delle fazioni e il disarmo delle milizie; f) nuove elezioni sotto il controllo delle Nazioni Unite; g) modifiche costituzionali entro tre mesi ed eliminazione dei consigli provinciali e comunali; h) un’indagine equa sui responsabili dell’uccisione di manifestanti; i)l’impegno del Consiglio giudiziario supremo di indagare sulla corruzione tra i funzionari governativi; e j) la restituzione dei fondi pubblici saccheggiati».
Le mobilitazioni inarrestabili di questi mesi hanno ottenuto le dimissioni del governo, una nuova legge elettorale e la disponibilità ad indire nuove elezioni. Come spiega chiaramente Davide Grasso, «la richiesta strategica è stata però una legge elettorale che autorizzi liste aperte e non di nomina partitica, cosicché la società possa inondare delle sue candidature i partiti stessi, rinnovando non tanto i nomi delle liste, ma quelli dei parlamentari».
Alla decisione del regime di insediare Mohammed Allawi (laico, ministro nel governo sotto occupazione del 2005) il primo febbraio come primo ministro al posto di Adil Abd al-Mahdi, la piazza ha, infatti, risposto “candidando” Alaa al-Rikabi, attivista della protesta a Nassiriya, che ha già subito un tentativo di assassinio a fine gennaio. Il primo marzo Allawi ha rinunciato all’incarico.
Davide spiega anche che «piazza Tahrir si rende conto che una resistenza disarmata contro lo stato e le sue milizie, e il loro protettore esterno, rende necessario trovare delle sponde. L’intervento dell’Onu è stato spesso invocato da chi sta nella piazza, ma la stessa azione di contenimento sull’Iran rappresentata dagli americani è vista da molti come necessaria se le condizioni non cambieranno (se non fosse che l’escalation voluta dalla Casa bianca mette ora a rischio proprio quel genere di equilibrio)» perché «l’urgenza è arginare la violenza più prossima e immediata, sperando che qualcuno punti il mirino sulla minaccia che incombe da più vicino».
La stessa cosa era accaduta nel 2006, quando, nelle regioni centro-occidentali dell’Iraq, le milizie qa’idiste, con piena “tolleranza” da parte degli occupanti, si scatenavano con metodi terroristici contro le comunità costringendole così a organizzare la difesa distraendo forze alla Resistenza anti-americana: la Sahwa (il Consiglio del Risveglio) finì con l’accettare la protezione americana contro le milizie non certo per volontà collaborazionista ma per l’urgenza di fronteggiare la violenza più prossima.
I giovani iracheni dovranno affrontare, oltre che la reazione delle milizie (comprese quelle integrate nel cosiddetto “esercito nazionale”) e la guerra antipopolare che l’Iran condurrà contro la rivolta, la prossima guerra tra milizie settarie che gli Stati Uniti e la Repubblica Islamica innescheranno sul territorio iracheno per il controllo del “ponte di terra” (the burning bridge) che l’Iran vuole aprire attraverso la regione di al-Anbar per raggiungere il Mediterraneo e che Washington intende stoppare separando le regioni a maggioranza sunnita dalla nazione irachena favorendo le caste dominanti locali.
Quella che si profila non è una guerra diretta o convenzionale tra Usa e Iran, ma un conflitto sanguinoso tra attori non statali sostenuti gli uni (sotto bandiere sunnite) dalla superpotenza e gli altri (le fazioni sciite) dalla potenza regionale.
Se ne rende conto Jeanine Hennis-Plasschaert, attuale Rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per l’Iraq, che nel suo Briefing al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (3 marzo 2020) scrive della sua «speranza in una nazione sovrana che rifiuta di diventare un campo di battaglia per conflitti che non sono suoi», e ancora: «Ora la domanda è se l’Iraq fiorirà come sede di pace e comprensione, o soffrirà come arena di battaglie esterne».
È una sfida teoricamente impossibile da vincere per i giovani della Rivoluzione di Ottobre. Infatti, i potentati politico-economici che hanno sostenuto il sistema settario e che si vedono danneggiati dal suo superamento di fatto, non potendo continuare ad accordarsi sulla spartizione del potere, non spariranno ma entreranno in conflitto tra loro per l’egemonia e riverseranno il massimo di violenza sui dimostranti.
L’intervento iraniano si farà forte di questo squilibrio per aumentare la pressione sul Paese e mettere in campo tutte le forze della repressione. L’amministrazione statunitense ha tutto l’interesse a disfarsi di un governo divenuto inaffidabile e brigare per un cambiamento che restituisca spazio all’ingerenza americana: un appoggio ingannevole alla rivolta, l’influenza esercitata sull’Onu perché sostenga una soluzione di compromesso invece di un rivolgimento radicale, “sovvenzioni” economiche ai vertici delle tribù sunnite e la manipolazione di ong irachene e internazionali presenti nella piazza per deviarne gli obiettivi, strumenti già sperimentati con successo anche durante le “Primavere arabe”, sono le armi della diplomazia americana.
Ma un ritorno allo status-quo pre-rivoluzionario è impossibile. Disgraziatamente sono possibili sia un ulteriore eccidio di manifestanti che una nuova guerra sul territorio. L’enormità della violenza che il regime ha scatenato contro i dimostranti potrà ridurli nel breve periodo al silenzio, ma, come sempre è successo, aumenterà i sentimenti e le ragioni dell’opposizione radicale. Non è che l’inizio.
Fermare il massacro e la guerra che promette di estendersi al “nostro” mare è anche nostra responsabilità. 1.100 militari, 305 mezzi terrestri e 12 mezzi aerei italiani sono in Iraq con il compito di addestrare al combattimento le Forze di Sicurezza curde e il Counter Terrorism Service iracheno, schierato nelle strade di Baghdad con il compito di “usare tutte le misure necessarie” per stroncare le proteste contro il governo islamista che, in questi 5 mesi, ha fatto più di 700 morti e molte migliaia di feriti tra i manifestanti. Nena News