La mobilitazione iniziata a ottobre è la più sviluppata e organizzata delle tante proteste susseguitesi dal 2011 a oggi. Alla base il rifiuto del connubio settarismo-degrado-povertà
di Valeria Poletti
Roma, 5 maggio 2020, Nena News – (per la prima parte clicca qui)
In nome della religione i ladri ci hanno rapinato
Secondo i dati della Banca Mondiale «l’economia irachena sta gradualmente riprendendo, dopo la contrazione degli ultimi due anni. Il Pil è cresciuto del 4,8% su base annua (a/a) nella prima metà del 2019, invertendo la contrazione del 2017-‘18. La crescita può essere attribuita principalmente a un aumento della produzione di petrolio greggio (+6,3%) e un rimbalzo dell’attività economica non petrolifera (+ 5,6% nel primo semestre, a/a)».
Ma, a quanto riferisce Dirk Adriaensens, membro di SOS Iraq e del Brussells Tribunal, «nonostante l’enorme ricchezza petrolifera in Iraq, il 32,9%, cioè 13 milioni di iracheni, vivono al di sotto della soglia di povertà e la disoccupazione giovanile è del 40% secondo i dati recenti del Fondo Monetario Internazionale, mentre i giovani sotto i 25 anni costituiscono il 60% dei 40 milioni di abitanti dell’Iraq. (…) L’elettricità è fornita da 5 a 8 ore al giorno, l’acqua è inquinata, c’è un sistema medico in avaria, i livelli di istruzione sono molto bassi, la corruzione è endemica. (…) La corruzione, lo spreco di risorse governative e l’acquisto di attrezzature militari hanno aumentato il deficit di bilancio dell’Iraq da 16,7 miliardi di dollari nel 2013, 20 miliardi nel 2016 a 23 miliardi per l’anno fiscale 2019».
Il Sole24 ore del febbraio 2018 riportava: «In un terzo dell’Iraq, il territorio conquistato dall’Isis all’apice del Califfato, occorre ricostruire tutto: ponti, strade, aeroporti. Anche ospedali, scuole, linee telefoniche e fogne. E soprattutto case. Almeno 147mila unità abitative sarebbero andate distrutte nei tre anni e mezzo di guerra contro l’Isis, 43mila nella sola Mosul, la capitale irachena dell’Isis conquistata dai jihadisti nel giugno del 2014 e liberata nel luglio del 2017 dalle forze irachene, con il contributo decisivo dell’aviazione americana. Il costo della ricostruzione: 90-100 miliardi di dollari».
Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale fanno e faranno la loro parte quanto a prestiti e imprese internazionali sarebbero ben disposte agli investimenti (non fosse per quelle fastidiose mobilitazioni popolari!). Dove vanno tutti questi soldi?
Come si diceva, la spartizione del potere economico coincide con quella del potere politico e si basa sul sistema delle quote assegnate ai rappresentanti di ciascun gruppo settario o etnico. E ciascun gruppo ha le sue milizie che devono ottenere la loro parte di business: i leader delle milizie siedono nei consigli di amministrazione e controllano porti, frontiere, giacimenti petroliferi, ecc.
«La città di Bassora è un buon esempio, in cui il partito musulmano sciita Al-Dawa controlla il giacimento petrolifero di Al-Burjisiya, i giacimenti di gas Sheeba e Al-Muthanna, l’aeroporto internazionale di Bassora e il porto marittimo di Umm Qasr- continua Dirk Adriaensens – Un altro gruppo, composto da Asaib Ahl al-Haq e dalla milizia Badr, controlla il porto di Abu Flous e la linea ferroviaria. La milizia Sadrist controlla lo stadio della città e il valico di frontiera di AlShalamcheh con l’Iran. Al-Hikma, un blocco islamico sciita, sorveglia il giacimento petrolifero nord di Al-Rumaila, il porto di Al-Maqal e il valico di frontiera con Safwan con il Kuwait. Altre aree come il porto di Khor Al-Zubair e il rettorato dell’Università di Bassora sono controllate da clan come Al-Battat. (…) Numerosi ministri e funzionari con doppia nazionalità presiedono all’assegnazione di contratti per via clientelare; a titolo di esempio “molti incarichi nel gabinetto, i direttori generali dei ministeri e il personale dell’ambasciata sono membri della famiglia di Moqtada Sadr e Hadi Al-Ameri, il capo dell’organizzazione Badr, l’ala militare del Consiglio supremo islamico iracheno, i due maggiori partiti del parlamento iracheno”».
Uno degli slogan più diffusi nelle manifestazioni è “in nome della religione i ladri ci hanno rapinato (Bismil deen baguna al-haramiya)”.
Non è ancora la fine
Contro questo connubio settarismo-degrado-povertà gli iracheni conducono fino dal 2011 mobilitazioni di massa. La più estesa e significativa, prima d’ora, nel 2015-’16, quando la protesta – innescata dalla sistematica interruzione dell’energia elettrica – ha portato in piazza un milione e mezzo di cittadini e lavoratori ed è presto approdata alla richiesta di un’ampia riforma del sistema politico, della fine del confessionalismo, della critica della corruzione e del malgoverno. Inizialmente guidata da formazioni laiche e della sinistra riunite in Mustamerroun, le sorti del movimento sono poi state decise dall’aggregarsi delle fazioni legate al leader sciita al Sadr (il massacratore di migliaia di resistenti e sunniti durante l’occupazione) su posizioni di ambiguo populismo.
Questo ha provocato l’allontanarsi dal movimento di una grande parte di attivisti e la spaccatura di Mustamerroun, abbandonato dalla corrente che è andata a costituire Madaniyoun – un movimento laico e riformista che, pur non mettendo in discussione la legittimità dello Stato, esclude qualsiasi interazione con l’attivismo islamista – sostenuto anche da intellettuali conosciuti e anche oggi impegnati nella rivolta.
L’indebolimento del fronte civile ha così portato l’alleanza tra al-Sadr e il Partito Comunista Iracheno a prevalere nelle elezioni del 2018 (alle quali ha votato circa il 20% degli aventi diritto) e a far parte del governo che l’insurrezione popolare vuole rovesciare.
Non diversamente l’intrusione dei sadristi, interessati ad occupare posizioni di potere per la propria fazione nella compagine statale e non a perseguire riforme radicali, ha portato alla paralisi le mobilitazioni del 2017 e 2018 che muovevano dalle medesime condizioni di profondo malessere sociale e ponevano gli stessi obiettivi, cioè la fine della divisione del potere per quote settarie, la riforma dello Stato su proposta di un organismo estraneo ai partiti politici e il controllo sul processo elettorale, l’eliminazione della corruzione, la formulazione di politiche chiare per far fronte alla carenza di servizi e ai bisogni socioeconomici degli iracheni.
Non è che l’inizio
La maggiore radicalità del movimento insurrezionale cui stiamo assistendo oggi e che aspira al rovesciamento del regime, cioè dell’intero sistema politico, è determinata proprio dalla natura spontanea della rivolta che ha trasceso i limiti territoriali e comunitari permettendo una condivisione senza precedenti tra le componenti sociali e un’inedita espressione di solidarietà con le rivolte in Libano e in Iran.
Quella che potremmo chiamare “classe media”, costituita dai dipendenti statali che non hanno segnato una grande partecipazione alle prime mobilitazioni, ha aderito in massa alla seconda fase che ha preso avvio il 25 ottobre, sempre innescata dagli strati più disagiati e, in particolare, dalla massa dei disoccupati.
Come è germogliata e come è fiorita questa maggiore radicalità lo spiega bene Sami Adnan, co-fondatore di Workers Against Sectarianism (un gruppo di giovani disoccupati che sottolineano la connessione tra lotte sociali e posizione politica contro il sistema settario).
«A causa della disoccupazione, le persone si sono davvero connesse tra loro. Trascorriamo il nostro tempo insieme nei bar, nei caffè e siamo collegati tramite Facebook; senza lavoro, generalmente non abbiamo nulla da fare durante il giorno. Quando la protesta è iniziata, prima in Egitto e poi in Libano, la gente ha cominciato a condividere su Facebook le stesse questioni, come “trovarsi per strada”, [perché] abbiamo gli stessi problemi con il nostro sistema islamico. Le persone che hanno invitato a scendere in piazza sono state le stesse persone che hanno guidato le proteste nel 2015. Quando le persone si sono incontrate in Piazza Tahrir a Baghdad, abbiamo costruito un palco e da quello le persone hanno parlato di come organizzare la protesta e quali richieste dovremmo avanzare . In questo modo è nato lo slogan “Secolare, secolare, né sunnita né sciita”. (…) Alcuni partiti politici hanno voluto cooptare questo movimento partecipando, ma questo ha fatto adirare la gente per strada perché non vogliamo nuove elezioni o una soluzione nel quadro delle istituzioni dominanti, la gente vuole porre fine a tutto il sistema e ne esige un nuovo. Le persone non credono più in ciò che gli Stati Uniti chiamano democrazia o nel Parlamento come espressione dell’opinione popolare. Ciò che la gente chiede è un nuovo sistema, nient’altro. Ma nessuno dei partiti può capire ciò che la gente vuole, neanche il Partito comunista iracheno. L’Icp vuole mantenere il sistema e stare in Parlamento e nelle istituzioni. I partiti esistenti non vogliono ciò che le persone chiedono per le strade, in particolare un sistema sociale, democratico e secolare».
E, riguardo al problema di come strutturarsi per raggiungere l’obiettivo, Sami sottolinea che «l’esempio della rivolta di Bassora 8 mesi fa mostra molto bene dove si trova concretamente il problema. A Bassora questo problema era molto concreto. La protesta è stata guidata dai disoccupati che erano davvero radicali. I manifestanti hanno iniziato a bruciare l’edificio del governo locale e hanno bruciato tutti gli uffici e le sedi dei partiti dell’Islam politico. Le forze governative furono costrette a lasciare la città mentre tutta la gente occupava le strade e i campi petroliferi rendendosi conto di qual era il vero problema e come funzionava il sistema. In una situazione nuovissima si sviluppò una coscienza radicale e anche gli operai dei giacimenti petroliferi sostennero le proteste con gli scioperi. Ma poi è sorta la domanda: che cosa dobbiamo fare ora? Il Partito Comunista dei Lavoratori dell’Iraq [Wcpi] ha proposto di costituire i Consigli nella regione e con i lavoratori e di prendere il governo della città. Il Wcpi ha anche una forte presenza sindacale tra i lavoratori del petrolio, organizza assemblee per condividere le esperienze [di lotta], cerca di creare un forte orientamento sociale di sinistra che comprenda anche le lotte delle donne costruendo un loro movimento. Ma costruire strutture così auto-organizzate è una cosa molto difficile da fare senza esperienze e in una situazione così difficile. Non dobbiamo, inoltre, dimenticare che la borghesia e i partiti islamici hanno denaro, hanno armi, milizie, sostegno internazionale. Viviamo anche in una società molto spaventata a causa del violento terrorismo dello stato. Viviamo una vera guerra di tutti i giorni».
Janan Aljabiri, ricercatrice con dottorato dell’Università di Bath (Regno Unito), offre una visione d’insieme di un movimento che si dà forma sul campo: «Mesi prima dello scoppio della rivolta, i lavoratori del settore pubblico nell’Iraq centrale e meridionale – compresi i lavoratori tessili a Diwaniyah, i lavoratori municipali a Muthanna e i lavoratori di pelletteria a Baghdad – hanno presentato richieste per migliori condizioni salariali e di lavoro, alloggi sicuri e posti di lavoro permanenti. Ma queste richieste sono passate in secondo piano dall’inizio delle proteste. (…) Dall’esplosione di ottobre, i manifestanti hanno bloccato l’accesso ai giacimenti petroliferi nelle città meridionali di Bassora, Nassiriya e Misan e hanno chiuso le strade principali verso i porti per paralizzare il commercio. (…) Organizzazioni della società civile, sindacati e gruppi politici hanno allestito tende in piazza per offrire supporto logistico, servizi medici, fornitura di cibo e acqua, distribuzione di elmetti, incontri di informazione e discussione e altro ancora. Medici, infermieri e studenti di medicina forniscono cure giorno e notte in camici da laboratorio».
Nel dare conto della timorosa solidarietà espressa dai sindacati, informa che «la Federazione Generale dei Sindacati Iracheni (Gfitu, l’unica federazione ufficiale nell’odierno Iraq, dominata dalla corrente sadrista) ha chiesto la “solidarietà” con l’insurrezione senza chiedere ai lavoratori di unirsi alle manifestazioni».
Al Sadr non ha, evidentemente, rinunciato a cavalcare la protesta per dirottarla verso la causa nazionalista islamica: «Molti manifestanti a Baghdad hanno chiesto che la corrente sadrista lasci la piazza poiché le persone si ribellano contro il dominio di tutti i partiti islamici. I marxisti, incluso il Wcpi, sottolineano la necessità che il movimento operaio operi e intervenga come una forza politica indipendente e si sia organizzato a tal fine». Nena News
(continua)