Le autorità turche hanno arrestato ieri in 76 province 641 dei 1.112 poliziotti sospettati di essere affiliati al movimento del religioso Gulen. Erdogan, intanto, in vista delle municipali, abbassa i prezzi degli alimenti di base difendendosi “dall’attacco terroristico” scagliato contro la Turchia da imprecisate potenze
della redazione
Roma, 13 febbraio 2019, Nena News – A quasi tre anni dal fallito colpo di stato del 15 luglio del 2016, continua senza sosta la campagna repressiva del presidente turco Erdogan contro i “nemici” dello stato. Ieri, infatti, la polizia ha arrestato in 76 province del Paese 641 dei 1.112 poliziotti sospettati di essere ritenuti affiliati al movimento Hizmet del predicatore islamista Gulen sulla base di un’indagine relativa a un concorso per agenti di polizia del 2010. Gulen era un ex alleato di Erdogan caduto poi in disgrazia al punto da essere andato in auto-esilio negli Usa. Ankara lo ritiene il leader dello “stato parallelo” che vuole far cadere Erdogan al punto da aver ordito il tentato colpo di stato del 2016.
Secondo le autorità turche, Gulen avrebbe infiltrato propri uomini dentro tutte le istituzioni dello Stato e così, con questa motivazione, giustificano da quasi tre anni la loro campagna di epurazioni contro il movimento del religioso. Ma a pagare sulla propria pelle la repressione di Ankara non è solo Hizmet, ma ogni voce contraria al “Sultano”. Un dato su tutti rende l’idea di cosa sia la Turchia del fallito post-golpe: nelle 384 carceri turche sono in cella in attesa dei processi legati al colpo di stato 77.000 persone; 150.000, invece, sono i dipendenti pubblici licenziati spesso senza che venisse offerta alcuna prova del loro legame con l’organizzazione di Gulen. Tra i “nemici” di Erdogan vi è poi la stampa: finora 130 media sono stati chiusi nel Paese e 68 giornalisti sono ancora dietro le sbarre (degli oltre 240 arrestati dopo il 15 luglio 2016).
Senza dimenticare che in prigione ci sono anche i parlamentari del partito di sinistra pro-curda Hdp. Contro l’Hdp la repressione di Ankara è stata durissima: 10 dei suoi membri sono ancora in carcere. In prigione fino a una decina di giorni fa c’era anche Leyla Guven che ieri è arrivata al 100° giorno di sciopero della fame con cui sta chiedendo la fine dell’isolamento di Ocalan, il leader del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), che Ankara considera una formazione terroristica. Ieri marce di solidarietà nei confronti della parlamentare sono state organizzate in 15 città turche, ma sono state bloccate dalla polizia con barricate, scudi e altri arresti.
Ma a preoccupare recentemente Erdogan è anche un altro tipo di “terrorismo”: quello alimentare. A inizio settimana, le municipalità di Istanbul e Ankara hanno cominciato a vendere in 65 differenti punti delle due città (50 a Istanbul, 15 ad Ankara) gli alimenti di base a metà prezzo rispetto ai costi che si trovano nei negozi e nei mercati. In effetti i prezzi per il cibo e per le bevande non alcoliche sono un problema di non piccolo conto visto che per acquistarli bisogna spendere il 31% in più rispetto all’anno scorso. Intervenendo lunedì su questa questione, Erdogan ha detto che il Paese è vittima di un “attacco terroristico” ordito da non identificate potenze. La battaglia per mantenere i prezzi bassi, ha poi aggiunto, è simile a quella che da 34 anni vede contrapposta la Turchia ai separatisti curdi del Pkk. Un paragone che fa sorridere per la sua assurdità, ma dopo tutto figlio di mera propaganda politica: il 31 marzo, infatti, ci sono le elezioni locali e il partito Akp del super presidente, temendo ripercussioni politiche soprattutto a Istanbul e Ankara a causa della crisi economica che investe il Paese, prova a giocarsi la carta di un nuovo “nemico” che minaccia la Turchia. Da qui la mossa populistica: abbassare il prezzo degli ortaggi per qualche voto in più alle urne. Nena News