Sembra tutto pronto per un nuovo attacco in Libia, ma molte sono le incognite e le resistenze sia tra gli attori libici sia tra gli attori internazionali. La “guerra segreta” è, però, già iniziata
di Francesca La Bella
Roma, 8 marzo 2016, Nena News - Venti di guerra sembrano pronti ad investire la Libia. Dopo le notizie di attacchi statunitensi a Sabratha e il caso degli ostaggi italiani, le prime pagine dei giornali mondiali sono ormai occupate da alcuni giorni dal possibile attacco internazionale nel Paese nord africano. Una coalizione formata da 19 Stati tra cui Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna ed Italia, sotto la guida di quest’ultima, sarebbe pronta ad avviare un intervento armato d’aria e di terra per porre fine al caos libico e indurre un arretramento delle forze dello Stato Islamico, ormai ben radicate nel Paese.
Tutto ciò non sarebbe, però, frutto di una scelta estemporanea dovuta alla recrudescenza delle violenze sul territorio, ma la diretta conseguenza di un percorso intrapreso alla fine dello scorso anno con gli incontri di Roma sulla questione libica. In questi mesi, infatti, numerose sono state le operazioni sul campo e, nonostante la mancanza di un ufficiale Governo di unità nazionale e, di conseguenza, di una formale richiesta di intervento, le basi logistiche per una presenza internazionale sono state gettate. Diverse informative più o meno ufficiali, infatti, riferiscono della presenza di militari britannici a Misurata e Tobruk, di forze armate francesi che, partendo dalla portaerei Charles De Gaulle, avrebbero compiuto raid nell’area di Sirte, e di voli di ricognizione statunitensi a partire dalla base italiana di Sigonella. Una “guerra segreta”, come definita da molti giornali, che, senza mandato formale ed approvazione della comunità nazionale, starebbe gettando le basi per un intervento ufficiale e coordinato tra le diverse forze internazionali.
La cautela e la segretezza delle operazioni lascia aperti, però, diversi filoni di interpretazione. Nonostante sia ormai evidente la volontà di Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia di ricoprire un ruolo significativo nel mutamento del contesto libico e nel futuro riassetto del Paese, il basso profilo delle iniziative fino ad ora intraprese, la reticenza ad assumere la guida delle operazioni e la post-posizione continua di un eventuale intervento bellico formale sembrano, infatti, caratterizzare l’atteggiamento di tutte le potenze coinvolte. Da un lato questo sembra dovuto al mancato accordo sul Governo di unità nazionale: l’attendismo rispetto all’ennesimo voto di fiducia del Governo di Tobruk rispetto al Governo Sarraj, prima di ratificare eventuali decisioni, deve essere letto in quest’ottica. Dall’altro, però, il timore delle conseguenze di un ruolo attivo nella questione appare come elemento centrale nelle scelte dei diversi Governi. Se la possibilità di attacchi sul proprio territorio nazionale potrebbe spaventare la popolazione con conseguente indebolimento della fiducia nelle istituzioni e future ricadute elettorali, il precedente del 2011 obbliga i Governi alla cautela. L’azione contro il colonnello Gheddafi, infatti, deve essere considerata la principale causa dell’attuale caos libico e del formale fallimento dell’essenza statuale della Libia.
Se, a suo tempo, l’intervento venne condotto, per stessa ammissione dei soggetti coinvolti, anche per la difesa dei capitali internazionali investiti nell’economia libica, il risultato dell’operazione deve essere considerato fallimentare. Ad oggi, per quanto nell’economia libica sia in atto un tracollo inarrestabile e gli asset strategici come il petrolio ed il gas siano sempre più deboli, gli interessi coinvolti non sono minori e le ricadute di una nuova operazione non risolutiva potrebbero incidere sia sui mercati nazionali sia sull’intero mercato internazionale. D’altra parte, però, l’avanzata dello Stato Islamico e l’identificazione dei terminal petroliferi come Ras Lanuf o Mellitah come target degli attacchi jihadisti, spaventano le grandi compagnie come Total, British Petroleum ed ENI. Per alcuni Paesi, l’Italia in primis, il timore di intervenire viene, dunque, bilanciato dalle opportunità insite nell’intervento stesso.
Da questo punto di vista deve essere letta la possibile divisione della Libia in tre zone sotto controllo internazionale con la Tripolitania affidata alla gestione italiana, il Fezzan sotto protettorato francese e la Cirenaica controllata dalla Gran Bretagna. Il ruolo di supervisione dell’assetto generale dovrebbe, invece, essere gestito dagli Stati Uniti. Una divisione per aree di controllo che, da un lato, ricalca i confini delle zone di influenza delle attuali forze libiche e, dall’altra, sembra sovrapporsi alle aree di azione delle diverse compagnie petrolifere nazionali. Un progetto che potrebbe, però, incontrare numerose resistenze, anche tra coloro che oggi guidano i due Governi libici. Se il Governo di Tripoli, attraverso la voce del proprio Ministro degli Esteri Aly Abuzaakouk, avrebbe affermato di non accettare un intervento internazionale autonomo nel Paese, dichiarando di poter giungere ad una soluzione all’interno del dibattito libico, varie informative confermano la presenza italiana nell’area. A questa, inoltre, dovrebbero aggiungersi a breve 50 incursori del contingente “Col Moschin” a supporto delle operazioni di controllo del territorio. Difficile immaginare che l’azione delle forze armate italiane possa avere un reale impatto strategico laddove dovesse mancare la collaborazione con le istituzioni locali. Sul fronte di Tobruk, unico Governo considerato legittimo dalla comunità internazionale fino alla firma a Tunisi dell’accordo di unità nazionale, i Ministri locali hanno, invece, più volte negato il proprio avallo a Sarraj, minando la possibilità di costituzione del nuovo Governo e di presentazione di formale richiesta di intervento armato. In questo caso, la mancata collaborazione deve, però, essere letta più come strategia per ottenere maggiori vantaggi dalla trattativa che come reale opposizione al progetto di unità nazionale o di azione internazionale.
Un formale attacco armato internazionale in Libia sembra, dunque, possibile, ma non probabile nel breve periodo. Nonostante questo, le azioni singole ed indipendenti dei diversi soggetti coinvolti, potrebbero portare effetti di lungo periodo altrettanto distruttivi per la realtà libica. Una guerra dichiarata, ma non formalmente combattuta aprirebbe, infatti, spazi sempre maggiori alla propaganda dello Stato Islamico, indebolirebbe ulteriormente le capacità di azione dei tre Governi libici e inciderebbe negativamente sulle condizioni di vita, già critiche, della popolazione. In entrambi i casi, la percezione che ne deriva è quella di un intervento dai tratti neocoloniali teso al mantenimento di un efficace controllo territoriale e di un accettabile livello di tutela di impianti e personale espatriato nel tentativo di impedire che la crisi libica tracimi dai confini del Paese, andando ad investire il territorio europeo e il mercato internazionale.
Francesca La Bella è su Twitter @LBFra