Bruxelles glissa sulle violazioni dei diritti umani di Ankara e agevola la sua corsa verso l’Unione in cambio del contenimento delle frontiere. “Un giorno storico” secondo il premier Davutoglu. E crescono le ombre sui carichi di armi diretti in Siria
della redazione
Roma, 30 novembre 2015, Nena News - Alla fine l’accordo è arrivato, in barba ai diritti umani e alla nebbiosa relazione con le milizie islamiste che combattono Assad in Siria. La Turchia riceverà tre miliardi di euro di aiuti e rientrerà in corsa per un posto nell’Unione europea: tutto, purché tenga i migranti del Medio Oriente lontani dalle coste del Vecchio continente.
L’annuncio è stato fatto ieri dal presidente della Commissione Europea Donald Tusk, che ha spiegato i termini dell’accordo: a fronte dei tre miliardi di euro erogati da Bruxelles, Ankara dovrà implementare i controlli alle frontiere, schiacciare i trafficanti di uomini e collaborare con l’Ue per il rimpatrio di quelle persone non qualificate come rifugiati. Dovrà inoltre cooperare sull’assistenza ai rifugiati nel paese, assistenza facilitata dagli aiuti Ue e che sarà diretta soprattutto ai profughi siriani. Bruxelles controllerà mensilmente i progressi compiuti da Ankara.
“Ci aspettiamo un passo importante – ha detto l’ex premier polacco in conferenza stampa – verso il cambiamento delle regole di gioco per arginare il flusso migratorio che sta arrivando verso l’Unione Europea attraverso la Turchia”. Un flusso sempre più grande che a lungo ha provocato litigi tra i paesi membri, e solo recentemente ha portato a un accordo parziale sulla divisione per quote dei rifugiati in ogni paese, una ripartizione per 28 dei richiedenti asilo su oltre 850 mila migranti giunti quest’anno.
L’altra faccia ghiotta dell’accordo con Bruxelles è la possibilità di riprendere il processo di adesione all’Unione Europea superando lo stallo degli ultimi dieci anni e saltando una serie di step: il processo, infatti, si basa sul completamento di 35 “capitoli”, ognuno relativo a un aspetto della politica interna. Ankara, come rivela il portale Middle East Eye, ne ha completato solo uno negli ultimi dieci anni, ma comunque l’Unione Europea ha acconsentito ad aprire il “capitolo” 17, quello relativo alla politica economica e monetaria, entro il 16 dicembre. E a tenere due vertici l’anno con Ankara sul suo processo di adesione.
Eppure, solo due settimane fa, Bruxelles sembrava decisa a non accordarsi con la Turchia finché questa non si fosse “adeguata agli standard europei” sui diritti umani e sulle libertà fondamentali. In un rapporto redatto dalla commissione Europea e diffuso il 10 novembre scorso si puntava il dito contro la stretta sulla libertà di espressione nel paese che, dopo “due anni di progressi in materia”, era tornata al punto di partenza. Le libertà fondamentali, si legge nel rapporto, sono messe seriamente a repentaglio dagli arresti e dalle condanne a carico di giornalisti, minacce agli editori ostili al governo, intimidazioni nei confronti dei mezzi di comunicazione e delle modifiche alla legge su internet.
Il rapporto era costellato da una serie di esempi di violazioni delle libertà fondamentali, che vanno dalla gestione delle manifestazioni di Piazza Taksim nel maggio del 2013 – durante le quali persero la vita 8 persone e centinaia rimasero ferite per la brutalità delle forze di polizia – al maxi processo aperto lo scorso anno proprio contro i manifestanti, 255 dei quali sono stati condannati ad alcuni anni di prigione. Un processo che ha completamente ignorato le forze di sicurezza turche e le loro colpe.
Bruxelles, però, ha contestato soprattutto il controverso uso del potere giudiziario da parte delle autorità, segnalando “l’indebolimento della magistratura, del principio di separazione dei poteri e le pressioni politiche a cui sono stati sottoposti i pubblici ministeri”. Un punto che non cessa di essere di attualità, in Turchia, con l’ultimo di una serie di arresti clamorosi effettuato qualche giorno fa a Istanbul: l’accusa di spionaggio, terrorismo e rivelazione di segreti di stato per Can Dundar ed Erdem Gul, giornalisti del quotidiano Cumhuriyet rei di aver prodotto e diffuso un servizio del 2014 su un carico di armi fermato dai soldati turchi alla frontiera con la Siria, e destinato alle milizie islamiste dell’opposizione anti-Assad.
Sabato scorso, ovvero il giorno seguente al fermo dei due cronisti, il quotidiano Today’s Zaman riferiva che erano stati arrestati anche due generali e un colonnello dell’esercito turco, colpevoli di aver fermato proprio quel convoglio di camion in direzione della Siria lo scorso anno. Il polverone scatenato dal caso, che aveva suscitato enormi polemiche proprio a ridosso delle elezioni presidenziali di maggio 2014, aveva portato l’attuale primo ministro turco Davutoglu, allora ministro degli Esteri, a dire che i camion trasportassero aiuti umanitari ad alcuni villaggi turkmeni appena aldilà della frontiera a sud della Turchia. Secondo quanto detto dal presidente Erdogan in una conferenza stampa sulla vicenda martedì scorso, invece, i camion erano carichi di munizioni destinati al cosiddetto Esercito Libero Siriano.
Due versioni diverse della stessa storia, quelle date dai due più alti rappresentanti turchi, che gettano nuovo fumo sulle relazioni controverse che da anni avverrebbero a ridosso della frontiera turco-siriana, come hanno denunciato diversi analisti e giornalisti, e come ha sentenziato recentemente anche il presidente russo Vladimir Putin. Relazioni di cui l’Europa, impegnata da più parti a invocare la distruzione dello Stato Islamico, sembra non interessarsi, come non sembra interessata alla situazione dei diritti umani in Turchia, il cui rispetto è condizione necessaria per entrare nell’Unione. E anche se da Bruxelles promettono di “tornare a parlare delle differenze che ancora rimangono con la Turchia sui diritti umani e sulla libertà di stampa”, bloccare l’arrivo dei migranti è senza dubbio la questione più impellente. Nena News
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