Il premier tunisino Chahed ha detto ieri che il cambio di 10 ministri “renderà il lavoro dell’esecutivo più efficace e metterà fine alla crisi economica e politica”. Parole che non convincono il presidente della Repubblica Essebsi e soprattutto suo figlio Hafedh, leader del partito Nidaa Tunis, che ne chiede le dimissioni
della redazione
Roma, 6 novembre 2018, Nena News – Rimpasto di governo per provare a risolvere la crisi economica che affligge la Tunisia. Così il premier tunisino Youssef Chahed ha giustificato ieri il cambio di 10 ministri del suo governo. Tra le nuove nomine spiccano quelle dell’uomo d’affari ebreo Rene Trabelsi a capo del dicastero del turismo (Trebelsi potrebbe essere il terzo ebreo ad essere nominato ministro all’interno di un esecutivo tunisino da quando il Paese nordafricano ha raggiunto l’indipendenza nel 1956) e quella al servizio pubblico di Kamel Morjian, ex ministro degli esteri ai tempi del dittatore Ben Ali deposto dalle proteste del 2011. Nella nuova squadra di governo restano invece invariati i ministri delle finanze, degli esteri e quello dell’interno.
“Questo rimpasto governativo renderà il lavoro dell’esecutivo più efficace e metterà fine alla crisi economica e politica” ha detto il premier Chahed. Nonostante l’ostentata sicurezza, non è un momento particolarmente facile per il capo del governo tunisino: da un lato si fanno sempre più forti le pressioni esterne rappresentate soprattutto dal Fondo monetario internazionale (Fmi) che, dopo aver prestato alla Tunisia miliardi di dollari per mantenere il Paese a galla, chiede da tempo con forza l’implementazione di un piano “lacrime e sangue”. Un programma che prevede, tra l’altro, un aumento fino al 300% del prezzo dei beni di prima necessità sotto forma di imposte sul consumo.
Dall’altro lato Chahed deve difendersi dai sempre più ripetuti attacchi all’interno del suo stesso partito Nidaa Tunes: Beji Caid Essebsi, il presidente della repubblica nonché fondatore di Nidaa Tunis, non ha nascosto la sua opposizione al rimpasto e, secondo quanto riferito dalla sua portavoce Saida Garrach, ha fatto sapere di essere stato informato a riguardo soltanto a fatto compiuto. Sebbene Essebsi non possa fare nulla per fermare la nomina dei nuovi ministri perché il loro incarico dovrà essere ora approvato dal parlamento dove Chahed gode della maggioranza dei deputati, di certo le parole del capo dello stato sono l’ennesima dimostrazione della tensione che regna ai vertici del potere tunisino.
Ad attaccare Chahed non è solo il presidente della Repubblica, ma anche suo figlio Hafedh che, come capo di Nidaa Tunis, ha chiesto le dimissioni del premier per non essere riuscito a trovare soluzioni che rimettessero in moto l’economia del Paese. A fronte dei progressi raggiunti con la rivolta del 2011 che ha permesso alla Tunisia di approvare una Costituzione più progressista rispetto a quella degli altri Paesi arabi, i vari governi tunisini che si sono succeduti non sono riusciti però a trovare soluzioni alle ragioni strutturali che spinsero il 7 dicembre 2010 il venditore ambulante 27enne Mohammed Bouazizi a darsi fuoco a Sidi Bouzid. Un evento drammatico che segnò nei fatti l’inizio delle proteste che avrebbero cacciato di lì a poco il presidente-dittatore Ben Ali.
La Tunisia, infatti, viaggia a due velocità: agli investimenti nelle aree costiere e nelle città interessate dal turismo europeo, si contrappone lo stato di quasi abbandono delle aree rurali e più marginalizzate. Ad ad esacerbare le tensioni interne, ci sono poi le politiche economiche governative figlie dei diktat del Fondo monetario internazionale: contro di loro i tunisini sono scesi ripetutamente in piazza, ma il loro grido è stato per lo più inascoltato e soffocato da centinaia di arresti. E così in una situazione di forte crisi economica con una disoccupazione giovanile al 35% (dato che è ancora più alto nelle aree rurali), a guadagnare terreno sono stati i gruppi radicali islamisti. Con tali premesse non sorprende che la Tunisia sia stato il Paese che abbia dato un maggior numero di foreign fighters ad al-Qaeda e Isis per combattere in Libia, Siria e Iraq.
Un jihadismo che si è ritorto anche internamente però. Il Paese è stato infatti devastato da terribili attentati terroristici: dall’attacco avvenuto nel museo del Bardo di Tunisi (marzo 2015) a quello del resort di Sousse pochi mesi dopo. Senza dimenticare quello più recente avvenuto la scorsa settimana quando una donna si è fatta saltare in aria nel centro di Tunisi ferendo 9 persone. Ma la Tunisia post “primavere arabe” è anche il Paese degli omicidi politici: destò molta rabbia e commozione quello di Chokri Belaid, leader della coalizione di sinistra Fronte popolare, ucciso davanti casa nel febbraio 2013.
Il pericolo del terrorismo jihadista ha permesso al governo di giustificare lo stato di emergenza permanente in vigore nel Paese. Ma, denunciano opposizioni e ong, questo strumento è stato usato dall’esecutivo per limitare la libertà di movimento, per compiere arresti arbitrari e abusi e confiscare passaporti. Al centro delle critiche è l’ordine S17 con cui il ministero dell’interno mantiene confinati nei distretti di residenza centinaia di persone, per lo più giovani. E chi finisce in carcere, sostiene Amnesty International, subisce spesso torture. Nena News