Ieri l’intesa sulla road map per la città siriana è stata raggiunta: via le Ypg e le Ypj dalla comunità liberata due anni fa. Ankara procede spedita verso la creazione di una zona cuscinetto nel nord del paese
della redazione
Roma, 5 giugno 2018, Nena News – L’annunciato accordo è arrivato ieri: Turchia e Stati Uniti hanno trovato un’intesa sulla gestione di Manbij, città nel nord della Siria, a ovest dell’Eufrate, a metà strada tra il cantone di Afrin e quello di Kobane.
Manbij era stata liberata dall’occupazione islamista dell’Isis nell’agosto 2016 dalle Sdf, le Forze Democratiche Siriane, federazione guidata dalle Ypg e Ypj curde ma formata anche da unità turkmene, assire e arabe. Da allora è gestita dalle Sdf attraverso la formazione di un consiglio sul modello del confederalismo democratico, realizzato in questi anni nella regione di Rojava.
Una presenza che la Turchia ha sempre definito inaccettabile, la cosiddetta “linea rossa – l’ovest dell’Eufrate – invalicabile. Ieri il ministro degli Esteri turco Cavusoglu e il segretario di Stato Usa Pompeo (gli Stati Uniti hanno in questi anni sostenuto militarmente le Sdf nella lotta all’Isis) hanno trovato un accordo per l’implementazione di una road map per la città. Ma non hanno dato dettagli, unico elemento certo è la rimozione delle Sdf, considerate da Ankara organizzazione terroristica e motivo di frizione con lo storico alleato statunitense.
“L’obiettivo di questa road map – ha detto Cavusoglu in conferenza stampa – è la rimozione da Manbij di tutte le organizzazioni terroristiche e una stabilità permanente. In un primo momento saranno determinati i parametri dei piani comuni di allontanamento di Ypg e Pyd da Manbij. Possiamo chiamarli anche Pkk”. Poi dovremmo intervenire Turchia e Stati Uniti, insieme, con le rispettive forze militari entro 30 giorni dall’implementazione del piano.
Un passo atteso e temuto, il ritorno degli Usa all’ovile turco, mai davvero abbandonato e già ampiamente chiarito dalla totale assenza di misure assunte da Washington durante l’offensiva turca contro il cantone di Afrin, tra gennaio e marzo scorso. Il 18 marzo, dopo una durissima operazione militare che ha avuto come target anche la popolazione civile, le truppe turche appoggiate da migliaia di miliziani delle opposizioni al governo di Damasco, Esercito Libero Siriano in testa ma anche gruppi islamisti, hanno assunto il controllo del cantone causando lo sfollamento di 300mila civili, la maggior parte dei quali ancora sfollati nel deserto di Shahba ad Aleppo.
L’obiettivo della Turchia non è affatto un mistero, visto che viene ribadito ad ogni piè sospinto da anni: creare una zona cuscinetto lungo il confine nord siriano – Rojava, appunto – da controllare e ripulire della presenza delle unità di difesa popolari curde, le Ypg e le Ypj. Dopo la caduta di Afrin, Ankara ha trasferito nel cantone i miliziani e i loro familiari evacuati – dopo accordo con Damasco – da Ghouta est e migliaia di rifugiati siriani prima presenti in territorio turco. Un’operazione che i curdi leggono come volta a modificare la struttura demografica di Rojava e dunque a distruggere il progetto di confederalismo democratico che in questi anni i curdi hanno messo in piedi nella regione.
La presenza militare turca è ulteriore elemento di destabilizzazione all’interno del conflitto siriano: in violazione del diritto internazionale e della sovranità del paese, Ankara sta portando avanti dal 2015 operazione di terra e dal 2011 finanzia e sostiene gruppi islamisti di diverse affiliazioni che nel tempo hanno creato un vero hub jihadista del nord ovest della Siria. Nena News
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