Nell’ultimo anno e mezzo le mobilitazioni dei lavoratori sono quasi scomparse, represse dalla militarizzazione dell’economia e della società egiziane e le politiche neoliberiste di al-Sisi. Ma le contraddizioni covano sotto la cenere e dalla resistenza operaia potrebbe rinascere un nuovo movimento popolare
di Duccio Pogni e Pino Dragoni
Roma, 1 maggio 2019, Nena News – Che fine ha fatto il movimento dei lavoratori in Egitto? Dove sono gli operai dei mega-distretti industriali del Delta del Nilo che tanto hanno contribuito al processo rivoluzionario, prima e dopo il 25 gennaio 2011? Che ne è stato dei sindacati indipendenti sorti a centinaia nel settore pubblico, tra i contadini, e persino nell’economia informale dopo la cacciata di Hosni Mubarak?
Nonostante il netto peggioramento delle condizioni di vita della maggior parte degli egiziani, l’impoverimento delle classi popolari, il deterioramento costante dei servizi, del welfare e delle infrastrutture, nell’ultimo anno e mezzo circa le mobilitazioni sul lavoro e le proteste sociali vivono la loro fase di debolezza più acuta dal declino iniziato con il colpo di stato militare del 3 luglio 2013.
Si tratta forse del primo maggio più difficile per l’Egitto e per i suoi lavoratori dal 2011, ma il conflitto sociale non è morto. In questo articolo cerchiamo di guardare ai processi di lungo periodo, ripercorrere quello che è successo negli ultimi tempi, e provare a cogliere – come sempre – qualche timido segnale di ottimismo.
Oltre lo sconforto. La rivoluzione può inciampare
In una delle più ricorrenti volgarizzazioni dell’approccio marxista, la formazione della coscienza di classe e la conseguente contrapposizione tra soggetti subalterni e classi possidenti seguirebbero un andamento lineare ed incrementale. Il punto culminante di tale processo sarebbe, ovviamente, il successo della rivoluzione socialista e la creazione di una società senza classi. In conseguenza di ciò, qualsiasi discostamento da questo scenario indicherebbe il fallimento del marxismo.
Niente è però più lontano dalla realtà. La coscienza di classe dei settori popolari tende infatti a mutare costantemente, sperimentando improvvisi balzi in avanti ed altrettanto inaspettate ritirate. Vi sono due ragioni al riguardo. Da un lato, la continua modificazione dei rapporti di produzione tende ad alterare costantemente la composizione di classe ed il peso relativo dei vari segmenti al suo interno, riflettendosi nel potenziamento oppure indebolimento della capacità del movimento operaio di avanzare le proprie istanze. Dall’altro, come qualsiasi soggetto politico, anche il movimento dei lavoratori è al tempo stesso il prodotto e la causa dell’ambiente circostante, venendo influenzato nel suo agire dal clima ideologico e dalle opportunità che si presentano.
Solamente a partire da questa premessa, l’attuale fase di debolezza del movimento operaio egiziano può non gettare nello sconforto sindacalisti, militanti rivoluzionari e semplici commentatori.
Tace Mahalla. La resistenza si atomizza
L’ultima grande mobilitazione operaia che si ricordi è quella dell’agosto 2017 a Mahalla al-Kubra, il più importante distretto tessile in Egitto. Per due settimane circa 16mila lavoratrici e lavoratori hanno scioperato, protestato, e marciato dentro e fuori la fabbrica per chiedere un aumento in busta paga. Sfidando la legge anti-proteste, la loro lotta ha messo in difficoltà il regime, che ha evitato di intervenire violentemente cercando una mediazione. Alla fine, gli operai e le operaie di Mahalla, proprio mentre il clima di mobilitazione si andava diffondendo ad altre fabbriche del paese, hanno vinto la loro battaglia. Vittoria ottenuta però a caro prezzo: a settembre, dopo la chiusura della vertenza, la rappresaglia del regime ha colpito quelli che erano considerati i leader della protesta con sospensioni dal lavoro, trasferimenti forzati e decurtazioni dello stipendio.
L’ultimo ruggito di Mahalla aveva acceso le speranze di una parte degli attivisti rivoluzionari e di sinistra, che speravano in un ripetersi di altri cicli storici in cui gli operai e le operaie del Delta erano stati la miccia di una più generalizzata rivolta contro il sistema. Ma questa volta (almeno per ora) quella propagazione non c’è stata, e lo sciopero segna in questo momento uno spartiacque, il passaggio ad una nuova fase, di ritirata. Fino allo sciopero di Mahalla le iniziative dei lavoratori, o in solidarietà con le loro mobilitazioni, erano continuate anche negli anni di al-Sisi, mentre intorno a loro praticamente tutti gli altri movimenti sociali erano ridotti al silenzio. Da allora però, secondo un recente rapporto dell’organizzazione irlandese Front Line Defenders, “le minacce violente e militarizzate hanno impedito l’emergere anche delle proteste economiche” e i diritti del lavoro sono diventati “uno degli argomenti più pericolosi in Egitto”.
Il rapporto approfondisce anche il tema della militarizzazione della società e dell’economia egiziane, che ha avuto come conseguenza un sempre maggiore ricorso ai tribunali militari anche per le vertenze sul lavoro ed evidenzia anche lo stretto legame di affari tra economia militare e stati europei (soprattutto la Francia). Inoltre, ad essere presi di mira sono spesso anche avvocati e attivisti solidali, che costituiscono una fondamentale rete di supporto alle singole lotte, oltre che di raccordo tra le mobilitazioni dei lavoratori e le altre realtà dell’attivismo civico e delle opposizioni politiche.
Ma ciò non vuol dire che tutto si sia fermato. Dalle iniziative dal basso ai tentativi più istituzionali qualcosa ha continuato a muoversi. Secondo l’ultimo rapporto dell’egiziana Arabic Network for Human Rights Information, nel 2018 sono state 588 le proteste sociali e dei lavoratori, di cui 200 sono state le proteste legate a vertenze sul lavoro. Tra queste si contano 62 scioperi, 44 sit-in e 22 scioperi della fame. I settori più attivi sono stati quello dei trasporti, della sanità e dell’istruzione. Considerato che la maggior parte di queste forme di protesta sono di fatto illegali e che negli ultimi anni sono stati centinaia i lavoratori incarcerati, torturati o licenziati per essersi semplicemente mobilitati in difesa dei propri diritti, anche questi dati – apparentemente poco incoraggianti – sono un segnale importante di una conflittualità diffusa.
Con proteste “sociali” invece nel rapporto si intende un ampio spettro di mobilitazioni per le più svariate motivazioni, che possono andare dall’interruzione della fornitura d’acqua a uno sgombero dei venditori ambulanti, dal mancato pagamento delle pensioni all’installazione di un’antenna telefonica. Tra le maggiori cause di queste proteste (il 25,5%) restano comunque questioni direttamente legate al peggioramento delle condizioni socio-economiche di vita.
Un dato da segnalare in negativo, ed evidenziato dal rapporto, è l’altissimo numero di suicidi o tentativi di suicidio annoverati tra le proteste sociali. Parliamo di 101 casi censiti dal rapporto e più o meno esplicitamente considerabili una forma di protesta sociale. Una stima sicuramente al ribasso, visto lo stigma sociale che accompagna il tema del suicidio nel paese e la difficoltà nel reperire tutte le notizie e classificarle con certezza. Il fenomeno di suicidi spesso eclatanti in risposta alle sempre peggiori condizioni di vita è sempre più diffuso in Egitto e sta a testimoniare non solo il livello di esasperazione della popolazione, ma anche l’assenza di un orizzonte di risposta collettiva ai problemi economici e sociali.
Sul piano delle iniziative più istituzionali e organizzate, quello della rappresentanza sindacale è stato un altro terreno su cui lavoratori, ONG e militanti hanno recentemente tentato di riconquistare uno spazio di lotta e di diritti. A maggio dell’anno scorso le elezioni del sindacato hanno offerto una nuova occasione di mobilitazione ad una parte del movimento. Il sistema corporativo di rappresentanza dei lavoratori, instaurato negli anni ’50 dal regime di Gamal Abdel Nasser, prevede infatti un sindacato unico per ogni categoria di lavoratori ed un’unica federazione che li raggruppi tutti (ETUF).
Questo monopolio era stato intaccato nel 2009, quando si erano formati i primi sindacati indipendenti, e con ancor maggiore forza nel periodo rivoluzionario, con l’esplosione delle nuove organizzazioni. Il loro status legale però da allora non è mai stato chiaramente definito e lo stato si ostina a non riconoscerne la legittimità.
Le elezioni del maggio 2018, le prime da 12 anni, sono state sfruttate da sindacalisti e militanti per cercare di ottenere la legalizzazione della posizione dei sindacati indipendenti e per sfidare la leadership del sindacato unico para-statale, dai livelli locali fino a quelli federali. A fine 2017 infatti, l’Egitto ha approvato una nuova legislazione in materia di sindacati che in teoria avrebbe dovuto aprire al pluralismo e alla rappresentatività, con l’obiettivo di essere rimosso dalla blacklist stilata dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO, l’acronimo inglese).
La campagna è riuscita ad ottenere qualche limitata vittoria locale e a rimettere in moto reti di attivisti e sindacalisti attorno ad un obiettivo comune, ma nel complesso non ha spostato gli equilibri di potere. L’ONG egiziana Center for Trade Unions and Workers Services ha riferito di violazioni sistematiche durante il processo elettorale, con l’esclusione ingiustificata di centinaia di candidati non allineati alla federazione pro-regime. Ciò nonostante, l’ILO ha comunque rimosso l’Egitto dalla lista nera, sbloccando così anche una serie di investimenti ed accordi commerciali che rischiavano di saltare.
Il bastone e la carota del salario minimo
È chiaro che il regime teme più di ogni cosa l’esplosione del malcontento e avendo represso qualsiasi forma di espressione delle istanze sociali deve in qualche modo controbilanciare con delle modestissime concessioni per salvare l’apparenza anche sul piano interno e mostrarsi vicino alla sofferenza delle classi popolari. A fine marzo di quest’anno infatti il governo ha innalzato il salario minimo da 1200 a 2000 lire egiziane al mese.
La mossa è evidentemente orientata a concedere un po’ di respiro ai tanti egiziani colpiti dalle draconiane misure di austerità e da un’inflazione che negli ultimi anni galoppa a due cifre. Dal 2015, l’anno di avvio del programma di riforme economiche sostenuto dal Fondo Monetario Internazionale, a fine 2018 il tasso di persone sotto la soglia di povertà è passato dal 27,8% della popolazione al 30%.
Soprattutto però, non sembra una coincidenza che l’aumento salariale sia stato concesso appena dieci giorni prima dell’approvazione da parte del parlamento di una riforma costituzionale, successivamente validata da un referendum popolare, che permetterà ad al-Sisi di restare in sella come presidente fino al 2030.
Per quanto questa misura rappresenti indubbiamente un netto e insperato miglioramento per il potere di acquisto di molte famiglie, almeno due sono le criticità maggiori. Da un lato, esso non riguarderà – se non indirettamente – tutti gli egiziani e le egiziane impiegati nel settore informale (che si stima costituisca circa il 40% del PIL del paese) ed i milioni di piccoli contadini che vivono lavorando la propria terra.
Dall’altro lato, come sottolinea Khaled Ali, noto avvocato difensore di molte vertenze dei lavoratori, fondatore dell’ONG Egyptian Center for Economic and Social Rights ed ex-candidato presidenziale, se rapportata all’inflazione la cifra di 2000 lire al mese è appena la metà di quanto sarebbe necessario per mantenere i lavoratori e le loro famiglie esattamente sulla linea della povertà dei 2 dollari al giorno.
E proprio su quella soglia era stata calcolata la precedente cifra di 1200 lire, cavallo di battaglia delle mobilitazioni post-rivoluzione, e concessa da al-Sisi dopo il colpo di stato. Insomma, pur avendo una busta paga con un incremento del 67% rispetto a prima, il potere di acquisto dei lavoratori egiziani con il salario minimo sarà comunque dimezzato rispetto a quello di appena cinque anni fa.
Le contraddizioni dell’oggi. E la rivoluzione di domani?
Il tentativo di al-Sisi di presentarsi come un nuovo Nasser, capace così di farsi promotore di un progetto di parziale inclusione delle classi subalterne all’interno di una logica sviluppista e modernizzatrice, è già stato ampiamente smentito dai fatti. D’altronde, le forze armate egiziane rappresentano oggi la frazione più importante della borghesia egiziana, iper-connessa con il capitale transnazionale proveniente sia dai paesi del Golfo che dall’Occidente.
In tal senso, anche se i generali volessero, non potrebbero in alcun modo abbandonare i dogmi neoliberisti a favore di una moderata ridistribuzione di ricchezza verso il basso. Soprattutto però, il perdurare di politiche anti-sociali significa il graduale esacerbarsi di quelle condizioni che hanno prodotto lo scoppio rivoluzionario del gennaio 2011.
Per quanto nessuna assunzione deterministica possa essere proposta tra le condizioni generali di un paese e l’innescarsi di un processo rivoluzionario, l’Egitto di oggi sembra portare in grembo la rivoluzione di domani. Per il momento, il regime ha coperto la limitata legittimità interna di cui gode con un grado di repressione senza precedenti. Questa ha disintegrato il movimento politico e fiaccato la resistenza operaia. Eppure, proprio dalla seconda sembra poter rimettersi in moto una nuova resistenza.