Dopo gli anni di Tahrir, il movimento sindacale ha vissuto una flessione. Ma ora torna in campo per ottenere il riconoscimento con una rete di sindacati indipendenti che puntano alla legalizzazione. Intanto gli scioperi continuano
di Pino Dragoni
Roma, 1 maggio 2018, Nena News – Ha due volti il primo maggio egiziano di quest’anno. Da una parte quello del presidente al-Sisi, che sabato è tornato a ‘celebrare’ pubblicamente la Giornata mondiale dei lavoratori nella cornice del sindacato ufficiale ETUF, dopo che nel 2015 in rottura con la consuetudine aveva preferito annullare i festeggiamenti per presenziare una piccola cerimonia a porte chiuse presso l’accademia di polizia.
Questa volta il presidente ha voluto premiare 10 membri esemplari del sindacato parastatale che da decenni detiene il monopolio assoluto delle organizzazioni dei lavoratori nel paese. Nell’occasione al-Sisi ha voluto omaggiare i lavoratori, “motore produttivo” dell’economia egiziana, ringraziando la popolazione per i sacrifici sopportati in questi anni. La promessa è ormai la stessa che il presidente va ripetendo da anni: “continuate a stringere la cinghia, e presto raccoglieremo i risultati degli sforzi fatti”.
Tutt’altro sapore avrà invece la giornata per gli attivisti sindacali non allineati, impegnati in una campagna serratissima per il riconoscimento delle organizzazioni indipendenti dei lavoratori. Dopo la rivoluzione del gennaio 2011 infatti centinaia di nuovi sindacati hanno tentato di mettere radici in vari settori raccogliendo i frutti di anni di lotte sui posti di lavoro. Lotte che però non potevano trovare uno sbocco istituzionale a causa del divieto di costituire organizzazioni indipendenti al di fuori della federazione ufficiale ETUF, controllata dal regime, costringendoli di fatto in un limbo legislativo che ne ha impedito la regolarizzazione. Da allora nessuno dei governi succedutisi al potere ha dato seguito alla promessa di garantire le libertà sindacali, sebbene queste siano anche sancite dalla nuova costituzione.
Da poco però la partita si è riaperta con l’emanazione in questi ultimi mesi dei decreti attuativi della nuova legge sui sindacati, che pur ponendo molte restrizioni sembra lasciare qualche spiraglio. I decreti infatti prevedono che tra maggio e giugno si aprano le procedure per le elezioni di nuovi organi direttivi dei sindacati, a tutti i livelli, dal posto di lavoro alla federazione generale. Le ultime elezioni, sempre pesantemente manovrate dal regime, si erano tenute nel 2006 ma una volta scaduto il mandato degli eletti nel 2011 anziché convocare nuove elezioni i vari governi avevano sempre preferito nominare direttamente la leadership del sindacato ufficiale, fortemente screditata e senza nessuna base di consenso tra gli iscritti.
Ma la grande novità è che (almeno sulla carta) le elezioni previste dalla legge riguarderanno anche i sindacati indipendenti, e non solo il rinnovo delle cariche del sindacato statale. Sarebbe la prima volta nella storia egiziana. La strada è tutt’altro che spianata, ma chi ha lavorato in questi ultimi sette anni a costruire le nuove organizzazioni non vuole lasciarsi sfuggire l’opportunità di regolarizzarne una volta per tutte la posizione sfruttando la legge esistente.
I sindacati indipendenti hanno adesso solo sessanta giorni di tempo per ottenere il riconoscimento ufficiale del loro status legale e gli uffici competenti a livello territoriale spesso rifiutano di accettare le domande presentate dalle organizzazioni non affiliate alla ETUF. Non si tratta solo di una questione formale, perché l’iscrizione al sindacato in Egitto è spesso legata anche ai diritti di previdenza sociale.
Così, è partita da diverse ONG, sindacati, attivisti e partiti di sinistra una campagna di informazione sulle procedure da seguire, con infografiche e video esplicativi lanciati sui social network e la creazione di un numero di telefono di ‘pronto intervento’ legale per supportare i sindacati a cui viene rifiutata la regolarizzazione. Un’assemblea tenutasi il 20 aprile alla sede del Centro egiziano per i diritti economici e sociali ha dato vita ad una rete tra varie realtà sindacali e politiche per coordinare più efficacemente la battaglia. Hanno aderito una trentina tra sigle sindacali, partiti e organizzazioni per i diritti umani, oltre a un centinaio di personalità pubbliche.
Il movimento sindacale egiziano vive ormai da anni una fase di declino. È lontano quel primo maggio 2011 celebrato in Piazza Tahrir per rivendicare misure di equità sociale e libertà di associazione sull’onda della rivolta popolare. L’avvento dei militari ha rappresentato un duro colpo. Oggi molti attivisti sono in carcere o sotto processo, e tutte le organizzazioni non governative che hanno sostenuto la crescita del movimento hanno ormai ridotto al minimo le proprie attività soffocate dalla repressione.
Anche la stampa indipendente, che ha spesso fatto da cassa di risonanza per le lotte diffondendo notizie e creando connessioni, è praticamente scomparsa, al punto che è ormai difficile persino rintracciare informazioni dettagliate e documentare le proteste diffuse in ogni angolo del paese.
Eppure non si fermano le lotte dei lavoratori, pur se isolate e difficili da inquadrare in un movimento coeso. Secondo Gianni Del Panta, ricercatore dell’Università di Siena, se “è vero che negli ultimi anni c’è stata una sensibile decrescita delle mobilitazioni”, bisogna anche notare che “i dati sugli scioperi del 2016 (gli ultimi disponibili per ora) sono comunque superiori a quelli pre-2011”. Il colpo di stato del 2013 insomma “ha posto dei limiti,” ci dice Del Panta, esperto dei movimenti dei lavoratori in Nord Africa, ma “non ha annientato la resistenza operaia” che rappresentò l’anima sociale della rivolta del 2011.
È di questi giorni la notizia di uno sciopero proclamato dagli operai di uno degli impianti della Bisco Misr, colosso agroalimentare che ha deciso unilateralmente di sospendere il pagamento dei dividenti annuali che per legge le società devono versare in busta paga ai lavoratori. L’azienda dichiara di non avere utili da redistribuire ma i 4000 operai in mobilitazione contestano, bilanci alla mano, che il volume di affari è addirittura aumentato e reclamano la loro parte. Il salario degli operai più anziani alla Bisco Misr è di 1500 lire egiziane (circa 70 euro al mese), vicinissimo alla soglia di povertà calcolata dall’istituto nazionale di statistica. Al quarto giorno di picchetto sei lavoratori (tra cui una donna) sono stati arrestati, per poi essere sottoposti ai domiciliari.
Dal 2014 a oggi il valore reale dei salari si è più che dimezzato, a causa di un’inflazione galoppante che ha divorato il potere di acquisto anche delle classi medie, oltre che dei poveri e dei lavoratori. Le riforme iper-liberiste di al-Sisi, accompagnate prima da una pioggia di dollari dal Golfo e poi dai prestiti del Fondo Monetario Internazionale, stanno iniziando a dare i primi risultati positivi in termini macroeconomici. Ma la crescita del PIL difficilmente porterà ad un miglioramento delle condizioni della popolazione. Oggi quasi un terzo degli egiziani è povero, e le misure di contrasto alla povertà attuate per mitigare gli effetti dei piani di aggiustamento strutturale sono risultate del tutto insufficienti a bilanciare gli aumenti dei prezzi.
La crisi, le proteste (e la repressione) non risparmiano neanche le forze dell’ordine. È di questi giorni la notizia di condanne pesantissime per tredici agenti di polizia accusati di aver agitato uno sciopero nel 2015. La protesta coinvolse centinaia di poliziotti di basso rango in una provincia del Delta che chiedevano migliori condizioni lavorative e aumenti di salario. Casi simili non sono rari negli ultimi anni. A chiunque sia stato in Egitto non saranno potute sfuggire le condizioni spesso disumane a cui sono costretti gli agenti impiegati nelle normali funzioni di ordine pubblico, spesso reclutati tra gli strati più miseri della popolazione.
Secondo Abdallah Hendawy, analista dell’Arabia Foundation di Washington, i poveri oggi “sono quelli che hanno più probabilità di ribellarsi perché non hanno letteralmente nulla da perdere”. “La prossima rivolta popolare,” ha dichiarato recentemente il ricercatore al Christian Science Monitor, “non riguarderà rivendicazioni politiche o di giustizia sociale come nel 2011. Avverrà perché le persone sono stanche, esauste, disperate. E sarà molto più pericolosa”.
Ma c’è anche qualcosa da festeggiare. Già in queste ore, a pochi giorni dal lancio della campagna, alcuni sindacati indipendenti annunciano che la loro richiesta di regolarizzazione è stata accolta. Iniziano a circolare foto di attivisti e attiviste che sventolano sorridenti le certificazioni ufficiali con cui viene riconosciuto per la prima volta lo status legale delle loro organizzazioni. Persino nelle condizioni peggiori di sempre, è proprio il caso di dire che la lotta paga. E, questo sì, è un buon augurio per il primo maggio. Nena News