I numeri dell’Onu dopo l’ultimo lancio di missili del generale Haftar su una struttura sanitaria di Tripoli. Il generale della Cirenaica sarebbe stato responsabile anche di un raid sabato notte su una struttura per sfollati. Bilancio: 7 civili morti, 17 i feriti. Intanto Malta si defila dalla missione europea Irini che dovrebbe limitare l’arrivo di armi al paese in guerra
di Roberto Prinzi
Roma, 18 maggio 2020, Nena News – Ormai è una certezza: neanche gli ospedali sono risparmiati dalla barbarie della guerra civile libica. L’ultimo orrore è stato compiuto tre giorni fa: centrati l’ospedale Centrale di Tripoli e alcune aree residenziali limitrofe. Il bilancio è stato di 14 feriti, tra cui alcuni bambini. Il Governo di Accordo nazionale (Gna) di Tripoli ha puntato di nuovo il dito contro il generale Haftar, il capo dell’autoproclamato Esercito Nazionale libico (Enl), già autore in passato di crimini simili. Una costante in Libia: solo dall’inizio del 2020 l’Onu ha registrato 17 attacchi contro strutture sanitarie. Raid odiosi che sono ancora più inaccettabili ora che il Paese deve fronteggiare l’epidemia di Coronavirus (finora 64 casi accertati e 3 morti) che sovraccarica un sistema sanitario già al collasso dopo 9 anni di guerra.
E quando non sono gli ospedali ad essere presi di mira, lo sono altre strutture civili. L’ultimo grave episodio è avvenuto sabato sera quando un bombardamento (il Gna ha accusato di nuovo Haftar) ha colpito una edificio universitario adibito a ricovero per sfollati (sono 400.000 nel Paese). Risultato: 7 persone uccise (tra cui un bambino di 5 anni bengalese), 17 i feriti. L’ennesima strage di innocenti che evidenzia, qualora ci fosse ancora bisogno di dimostrarlo, la violenza cieca della guerra civile libica. «Almeno 80 persone sono state uccise da gennaio a seguito dei combattimenti. Decine sono i feriti», ha denunciato Tom Garofalo, direttore per il Comitato del Salvataggio internazionale per la Libia. «Questi attacchi – gli ha fatto eco la missione Onu in Libia (Unsmil) – rappresentano un palese disprezzo per il diritto umanitario internazionale e per i diritti umani e sono da considerare crimini di guerra».
La situazione umanitaria in effetti è sempre più drammatica nel gigante nordafricano: poche ore prima dell’attacco all’ospedale di Tripoli, diverse organizzazioni delle Nazioni Unite (Ocha, Unhcr, Unicef, Unfpa, Wfp, Oms e Oim) lo avevano ricordato con un comunicato in cui chiedevano a Tripoli e Bengasi di porre fine alle violenze. Ma non c’è stato niente da fare: lo show delle atrocità deve andare avanti.
La ricetta dell’Unione europea (Ue) e dell’Onu per fermare le violenze nel Paese è arrestare il flusso ininterrotto di armi che giunge in Libia. A svolgere questo compito dovrà essere l’Operazione “Irini” che, partita lo scorso 4 maggio, è già però in alto mare: Malta, infatti, si è sfilata. Ufficialmente per motivi finanziari. In verità perché teme che la Guardia costiera libica potrebbe scaricare su di lei il peso di nuove partenze di migranti. Uscire da Irini vorrebbe invece dire compiacere Tripoli che, a differenza di Bengasi, si è sempre mostrata contraria ad una missione che, a suo dire, non riuscirà a bloccare i rifornimenti d’armi che giungono in Cirenaica da Egitto ed Emirati via terra e aerea. Il no maltese preoccupa non poco Bruxelles. L’Alto rappresentante dell’Ue Borrell sta provando a corteggiare Malta con aiuti e finanziamenti. Sia chiaro: non è la sicurezza dei libici che sta a cuore alla Fortezza Europa, ma solo il fatto che la continuazione della guerra comporterà necessariamente nuovi arrivi di migranti sulle nostre coste. Un orrore solo a pensarlo. Borrell è stato esplicito: «L’onda migratoria non sarà risolta finché non sarà stabilizzata la Libia».
Se a Bruxelles sono preoccupati per Irini, ostenta sicurezza il ministro degli Esteri Di Maio. Pochi giorni fa il titolare della Farnesina ha riferito in Senato quanto sia «fondamentale adoperarsi per il rilancio del processo di Berlino in termini di dialogo intra-libico». L’Italia, ha detto, «sta dando un rinnovato impulso al processo di pace» con i 500 uomini della Marina che prenderanno parte alla missione a guida italiana. Parole che stridono con la realtà e che mostrano tutta l’illusione di Roma di poter contare ancora qualcosa sul dossier libico: a Tripoli e a Bengasi già da tempo guardano ad altri lidi.
Un altro grave problema che affligge il Paese è quello dei mercenari. Un rapporto pubblicato venerdì da Bloomberg ha denunciato la presenza di mercenari occidentali legati a due compagnie emiratine arrivati in Libia per sostenere Haftar. Secondo lo studio, che cita fonti confidenziali dell’Onu, i soldati sarebbero stati in tutto 20 e sarebbero giunti in Libia nel giugno del 2019, ma si sarebbero ritirati alcuni giorni dopo a Malta. Ma a destare più preoccupazione restano i mercenari islamisti provenienti dalla Siria. Secondo quanto affermato dalla rete televisiva saudita “al-Arabiya”, un aereo della compagnia libica Afriqiyah airways è atterrato l’altro giorno presso l’aeroporto di Misurata con a bordo 122 combattenti dell’opposizione siriana filo-turchi. Poche ore prima l’Osservatorio siriano per i diritti umani, di stanza a Londra e vicino all’opposizione al presidente siriano Bashar al-Asad, aveva riferito che recentemente sono morti 11 mercenari siriani sul fronte di Tripoli (tra questi anche 9 minorenni di età compresa tra i 16 e 17 anni). Sempre la stessa organizzazione sostiene che il bilancio dei combattenti provenienti dalla Siria uccisi in Libia negli scontri con le forze di Haftar è salito a 298 e che il loro numero nel Paese nordafricano si aggira intorno alle 8.950 unità. Nena News