La causa palestinese oggi è in qualche modo tornata agli anni precedenti la guerra dei sei giorni. Per questo vale la pena individuare quella traiettoria per capire come si è raggiunta l’attuale situazione e definirne i possibili sviluppi. Prima parte dell’analisi di al-Shabaka
di Nadia Hijab e Mouin Rabbani – Al Shabaka
Ramallah, 27 giugno 2017, Nena News – Alla vigilia del 5 giugno 1967 i palestinesi erano dispersi tra Israele, la Cisgiordania (e Gerusalemme est) controllata dalla Giordania, Gaza amministrata dall’Egitto e le comunità di rifugiati in Giordania, Siria, Libano e oltre. Le loro aspirazioni per la salvezza e l’autodeterminazione erano dipendenti dai voleri dei leader arabi di “liberare la Palestina” – in riferimento a quelle parti della Palestina mandataria che divenne Israele nel 1948 – e in particolare a quelli del carismatico leader egiziano Gamal Abdel Nasser.
La guerra dei sei giorni, che terminò con l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gerusalemme est, Striscia di Gaza, il Golan siriano e la penisola egiziana del Sinai, portò con sé drammatici cambiamenti nella geografia del conflitto. Produsse anche un cambiamento radicale nel corpo politico palestinese. Con una rottura netta rispetto ai decenni precedenti, i palestinesi divennero padroni del loro destino piuttosto che spettatori delle decisioni regionali e internazionali che influenzavano le loro vite e determinavano il loro fato.
L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), creata nel 1964 sotto l’ala della Lega Araba nel suo primo summit, fu fatta propria nel 1968-1969 dai gruppi guerriglieri palestinesi nati in clandestinità negli anni Cinquanta, con Fatah alla guida. La sconfitta araba creò un vacuum nel quale i palestinesi furono in grado di ristabilire la custodia della questione della Palestina, trasformare le parti disperse della popolazione palestinese in un popolo unificato e attore politico e porre la causa palestinese nel cuore del conflitto arabo-israeliano.
Questo, probabilmente il più importante risultato dell’Olp, ha sostenuto lo spirito palestinese all’autodeterminazione nonostante la miriade di ferite inflitte da Israele e alcuni Stati arabi, e nonostante le ferite autoinflitte. Le battute di arresto subite dall’Olp sono state numerose, ma ha avuto successo nel porre la questione palestinese all’apice dell’agenda internazionale. Vale la pena ricordare successi e sconfitte dell’Olp per capire come il movimento nazionale palestinese ha raggiunto il posto che occupa oggi.
La prima vittoria dell’Olp è anche quella che ha gettato i semi di una sconfitta. La battaglia di Karameh del 1968 nella Valle del Giordano, durante la quale la guerriglia e l’esercito giordano respinsero le forze israeliane, estremamente superiori, portò all’adesione al movimento di tantissimi palestinesi e arabi, che fossero rifugiati, combattenti o uomini d’affari da tutto lo spettro politico. Allo stesso tempo, la minaccia implicita alla monarchia hashemita era chiara e le relazioni palestinesi con la Giordania si incrinarono fino all’espulsione dell’Olp da Amman durante il Settembre Nero del 1970.
Questo significò nella pratica che l’Olp non aveva più opzioni militari credibili contro Israele, se mai le avesse avute. Sebbene i palestinesi mantennero una presenza militare consistente in Libano fino al 1982, era un sostituto povero della più lunga frontiera araba con la Palestina storica.
Durante la guerra dell’ottobre 1973, Egitto e Siria ottennero vittorie parziali contro Israele ma soffrirono anche dure sconfitte, dimostrando che gli Stati arabi avevano poche speranze militari contro Israele. In contemporanea il movimento nazionale palestinese aveva raggiunto il suo apice internazionale con il discorso del suo leader, Yasser Arafat all’assemblea generale dell’Onu nel 1974 con l’Olp riconosciuto come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese.
Quell’anno l’Olp cominciò anche a gettare le basi per una soluzione a due Stati quando il parlamento, il Consiglio Nazionale Palestinese, adottò un piano di 10 punti per fondare un’“autorità nazionale” in ogni parte della Palestina che fosse stata liberata.
Il processo fu una necessità dolorosamente lenta perché porto la maggioranza dei palestinesi a riconoscere che un eventuale Stato palestinese non sarebbe potuto nascere sulla totalità dell’ex mandato britannico. Con il 1974 l’accettazione della realtà di Israele come Stato e la creazione di uno Stato palestinese su Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est divenne gradualmente l’obiettivo del movimento nazionale palestinese.
La visita dell’allora presidente egiziano Anwar Sadat a Gerusalemme nel 1977, che culminò negli accordi di Camp David del 1979 e il ritiro di Israele dalla penisola del Sinai, completata nell’aprile 1982, preparò il terreno per l’invasione israeliana del Libano nello stesso anno. Il principale obiettivo israeliano era spingere l’Olp fuori dal paese e consolidare l’occupazione permanente dei Territori Palestinesi Occupati. Con il più potente Stato arabo rimosso dal conflitto, la capacità dell’Olp di arrivare ai due Stati fu gravemente limitata e il conflitto arabo-israeliano si trasformò gradualmente in un conflitto solo israelo-palestinese, molto più vantaggioso per Israele.
Mentre l’Olp provava a ridefinirsi in Tunisia e negli altri paesi arabi, emerse una delle più grandi sfide per Israele all’interno dei Territori Occupati con l’esplosione della Prima Intifada nel dicembre 1987, largamente guidata da una leadership interna. Questo portò alla risurrezione dell’opzione di un confronto di successo con Israele sulla base della mobilitazione di massa non violenta su una scala che non si vedeva dagli anni Trenta.
Nonostante ciò, l’Olp si dimostrò incapace di capitalizzare il successo locale e globale della Prima Intifada. Alla fine la leadership in esilio pose i propri interessi, in particolare l’ambizione del riconoscimento da parte occidentale e soprattutto statunitense, al di sopra dei diritti nazionali del popolo palestinese, così come espressi dalla Dichiarazione di Indipendenza adottata ad Algeri nel 1988.
Queste contraddizioni divennero ambigue nel 1992-93 quando la leadership palestinese fu chiamata a scegliere tra il sostegno del negoziato della delegazione palestinese a Washington – che insisteva per una moratoria ampia dell’attività coloniale israeliana come precondizione alla nascita di un governo autonomo di transizione – e un negoziato segreto con Israele che portò minori risultati ma ricostruì la rilevanza internazionale crollata dopo la guerra del Golfo del 1990-91.
In seguito agli accordi di Oslo del 1993, l’Olp riconobbe Israele e il suo “diritto ad esistere in pace e sicurezza” nell’ambito di un documento che non menzionava occupazione, autodeterminazione, statualità e diritto al ritorno.
(continua)
Traduzione a cura della redazione
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