OPINIONE. In questo momento storico, vanno tenute a mente le tendenze a lungo termine che agiscono a favore del movimento di liberazione nazionale: tra gli ebrei americani, nella società israeliana e tra i palestinesi stessi

Palestinesi protestano durante una manifestazione israeliana alla porta di Damasco a Gerusalemme (Foto: Afp)
di Nadia Hijab – Al-Shabaka
Traduzione di Elena Bellini
Roma, 21 dicembre 2017, Nena News – (qui la prima parte)
Le opzioni palestinesi nella lotta per i diritti
Di fronte a questo scenario, che opzioni hanno i palestinesi? Senza dubbio, il momento attuale porta con sé grandi rischi per i palestinesi. Il movimento dei coloni ha ricevuto il via libera per andare avanti da Trump che, nel suo discorso su Gerusalemme, non si è nemmeno sforzato di dire ”Stato palestinese”, ma ha semplicemente parlato di pace e di “soluzione dei due Stati”, facendo dipendere anche questa dalla benedizione di Israele con l’aggiunta del “se entrambe le parti saranno d’accordo”.
La paura più grande è per Gerusalemme – sia per i palestinesi gerosolimitani che per il complesso di Al Aqsa. Vi è seria preoccupazione che Israele possa accelerare l’esproprio e il trasferimento dei palestinesi, attraverso l’uso dei vari strumenti burocratici perfezionati negli anni, come anche di bulldozer e palle demolitrici. E, anche se Trump ha ribadito il “sostegno allo status-quo” relativamente ai luoghi santi di Gerusalemme, questo viene facilmente spazzato via dal movimento per il Monte del Tempio che vuole costruire un terzo tempio ebraico al posto della Moschea di Al Aqsa.
Molte preoccupazioni vengono anche dal Quartetto Arabo – Arabia Saudita, Emirati Arabi uniti, Bahrain e Egitto – e dal loro capobanda, il principe ereditario Mohammad Bin Salman, che sta insistendo sul piano di annessione israelo-americano; pare abbia offerto ai palestinesi come capitale Abu Dis, sobborgo di Gerusalemme separato dalla città dal Muro illegale costruito da Israele in gran parte all’interno dei Territori Occupati e che divide i palestinesi tra loro e dai maggiori insediamenti.
D’altra parte, non si sa in che misura il Quartetto Arabo possa raggiungere i risultati che vuole. Lo stesso Bin Salman si è spinto troppo in là con la guerra contro lo Yemen, la repressione dei principi fratelli e, infine, con il tentativo fallimentare di costringere il primo ministro libanese Saad Hariri alle dimissioni, per indebolire il partito libanese alleato di Iran e Siria e la potenza militare di Hezbollah.
In tutto ciò, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas non potrebbe trovarsi in una posizione peggiore. Se si oppone alle pressioni delle forze alleate contro di lui, perderà gli aiuti statunitensi e di molta parte araba, senza i quali gli impiegati pubblici non possono essere pagati, il che riguarda circa un milione e mezzo di persone. Se abbassa la testa, sarà costretto a dire addio ai diritti dei palestinesi. In ogni caso, Mohammed Dahlan, acerrimo nemico di Abbas ed ex capo della sicurezza palestinese, pupillo degli Emirati, attende dietro le quinte ed è molto probabilmente pronto ad accettare.
Quanto costi opporsi alla comunità internazionale lo si vede chiaramente nella Striscia di Gaza, dove Hamas ha rifiutato di arrendersi e consegnare le armi. Il prezzo che i palestinesi di Gaza hanno pagato nell’ultimo decennio e continuano a pagare è alto. E tra le numerose voci che circolano sul conto finale che Israele e Usa pianificano di far pagare ai palestinesi c’è il trasferimento dei palestinesi di Gaza nel deserto egiziano del Sinai, ben lontani dai confini della loro terra d’origine (circa il 70% del milione e 900mila palestinesi di Gaza sono rifugiati).
D’altra parte, non mancano le opzioni per l’Olp/Autorità Palestinese e la società civile palestinese, sostenute dal movimento di solidarietà internazionale, se c’è la volontà di unire le forze e percorrere tutte le strade possibili, come deve essere fatto se si vuole contrastare la grande minaccia alla lotta per i diritti dei palestinesi. La riconciliazione interna tra Fatah e Hamas deve essere raggiunta non solo perché positiva di per sé. È anche essenziale per permettere al sistema politico palestinese di ottenere il sostegno da diversi Stati arabi e asiatici, alcuni dei quali sono più vicini a una parte che all’altra.
Ogni possibile legame che Fatah e Hamas possano ottenere, separatamente o congiuntamente, per rafforzare la posizione palestinese deve essere sfruttato. È un buon segno che Abbas preveda di convocare il Consiglio Centrale dell’Olp per una sessione d’emergenza alla quale “saranno invitate tutte le fazioni”.
Bisogna anche trovare il modo di ridurre, fino ad eliminare, il coordinamento dell’Autorità Palestinese con Israele sulla sicurezza. Ciò sarà molto difficile, date le misure che Israele può applicare contro i palestinesi, la leadership e Abbas in persona. Come minimo, verrebbe ridotta la capacità di Abbas di muoversi oltre i confini della Cisgiordania e di viaggiare.
Tuttavia, le competenze nel settore della sicurezza ci sono, e vi è abbondante letteratura su questo, inclusa la valida analisi politica del network Al Shabaka. Tali competenze potrebbero essere immediatamente disponibili per l’Autorità palestinese, se dovesse decidere di ridimensionare il coordinamento. Sarebbe anche ora di andare oltre gli appelli alla protezione internazionale per i palestinesi e di sviluppare una strategia coerente per garantire tale protezione.
L’Olp/Autorità Palestinese deve essere più attiva sulla scena europea. Finora, i Paesi europei che sostengono il diritto internazionale hanno reso le cose facili per Israele. Nel 2016, l’Unione Europea ha ribadito la propria posizione secondo cui i prodotti delle colonie che vengono importati in Unione Europea devono essere etichettati per dare ai consumatori la possibilità di una scelta informata: una misura timida e, di fatto, inefficace. Le informative che 18 Stati europei hanno rilasciato per avvisare le aziende dei rischi (legali, di reputazione e finanziari) che comporta il fare affari con gli insediamenti hanno avuto un maggiore impatto, ma non sono state recepite da leggi e regolamenti nazionali.
Nonostante l’atteggiamento pusillanime, l’Unione Europea e la maggior parte degli Stati membri non approvano l’occupazione israeliana. Per gli europei, il sistema del diritto internazionale creato a partire dalla Seconda Guerra Mondiale è la protezione contro altre guerre devastanti. Per avere successo nel tentativo di legalizzare l’occupazione, Israele dovrà mettere in discussione – e già tenta di farlo – tutto il quadro legale. Per ora, gli europei sono riusciti a chiudere un occhio e fare il minimo indispensabile sul fronte israelo-palestinese, felici di lasciar fare agli Stati Uniti, i cosiddetti “onesti mediatori”.
La dichiarazione con cui Trump ha riconosciuto Gerusalemme, con il contestuale attacco al diritto internazionale, costringerà gli europei a rimettersi alla guida, a meno che non vogliano vedersi crollare davanti agli occhi l’accurato sistema che hanno costruito. Inoltre, la questione del territorio occupato e dell’annessione è diventata qualcosa di più vicino e personale, per gli europei, dall’occupazione e annessione russa della Crimea nel 2014. Visto che sono state imposte sanzioni alla Russia, gli europei non sono nella posizione ideale per continuare a usare i guanti di velluto con Israele, quando Israele tenta di rendere legale il progetto illegale degli insediamenti.
L’Olp in particolare dovrebbe trarre vantaggio dal mancato riconoscimento da parte europea dell’azione di Trump e impegnarsi in una campagna di pubbliche relazioni e mobilitazione su vasta scala con i governi e i diplomatici europei. Con fermezza e determinazione, dovrebbe far leva sulla responsabilità dei Paesi europei relativamente al rispetto del diritto internazionale, e insistere per un sostegno tangibile alla posizione e alle misure contro la depredazione da parte di Israele. L’Olp ha a disposizione alcuni diplomatici navigati da mettere in campo per questo lavoro; dopotutto, alcuni di loro hanno condotto e vinto la causa contro il Muro di Israele alla Corte Internazionale di Giustizia nel 2014.
In altre zone del globo, Israele ha agito per capovolgere alleanze e partnership palestinesi nel Terzo Mondo, alleanze che rappresentavano la maggiore fonte di sostegno negli anni ’70 e ’80. L’ha fatto con successo in Asia, sopratutto in India, in Africa, e in America Latina. Ma non è troppo tardi: i palestinesi possono recuperare terreno e coltivare questi legami, offrendo servizi e alleanze quando possono. Soprattutto, l’Olp/Autorità Palestinese deve impegnarsi per evitare che altri Paesi seguano i passi intrapresi da Trump e riconoscano, o peggio, spostino le loro ambasciate a Gerusalemme.
In quest’attività, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa e sempre più in America Latina, l’Olp sarebbe supportata dalla società civile palestinese e dal movimento di solidarietà mondiale, che può intercettare decine di migliaia di sostenitori per fare pressione sui propri rappresentanti politici. Specialmente negli Stati Uniti, il movimento di solidarietà con la Palestina ha creato alcune istituzioni forti che portano avanti le istanze dei palestinesi e dei loro sostenitori nei media, forniscono assistenza legale a studenti e insegnanti sotto attacco per il solo fatto di denunciare, sostengono i diritti dei palestinesi con i rappresentanti del Congresso e coinvolgono un numero crescente di ebrei nella lotta per l’eguaglianza dei diritti per tutti.
Il ruolo dei palestinesi e della società civile mondiale, oltre a quello di mantenere la pressione su Israele e rigettare i suoi tentativi di controllare il dibattito, è quello di mantenere l’Olp sulla retta via. Ciò che Trump ha fatto potrebbe dare il colpo di grazia alla causa palestinese, se i palestinesi e i loro alleati non risponderanno in modo coerente e coordinato. Ragionando su queste e altre questioni e sviluppando strategie, i palestinesi e i loro alleati possono trasformare questa tragedia in un’opportunità.
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Nadia Hijab è cofondatrice e direttore esecutivo di Al-Shabaka, the Palestine Policy Network, e scrittrice, relatrice e commentatrice. Il suo primo libro “Womanpower: The Arab debate on women at work” è stato pubblicato da Cambridge University Press ed è coautrice di “Citizen Apart: a Portrait of Palestinians in Israel” (I.B. Tauris). È stata caporedattore del Middle East magazine, con base a Londra, prima di lavorare per le Nazioni Unite a New York. Cofondatrice e ex co-presidente della campagna statunitense per i diritti dei palestinesi, oggi è membro del comitato consultivo.