«Ogni sbarco porta con sé un carico di sofferenza, dolore, morte. Ad ogni numero di persone salvate si accompagna un numero di persone decedute o disperse. È un tragico conteggio quotidiano» scrive Rosa Schiano
foto e testo di Rosa Schiano
Lampedusa, 3 novembre 2016, Nena News – La preparazione è rapida e intrisa di un senso di responsabilità: persone provenienti da realtà drammatiche avrebbero incontrato al molo i primi volti al termine di un estenuante viaggio in mare, all’inizio di un nuovo viaggio carico di speranze. Ad attenderli, sulla banchina del molo Favaloro, colleghi di differenti organizzazioni, oltre a Mediterranean Hope e Forum Lampedusa solidale, le Misericordie, la Croce Rossa Italiana, Save the Children, ma anche Frontex e forze dell’ordine. Essi vengono di solito recuperati in mare, al largo delle coste libiche, dalle grandi navi di salvataggio delle organizzazioni umanitarie e dalle unità navali della Guardia Costiera, le cui motovedette si occupano poi del trasbordo conducendoli al molo.
Gli immigranti, divisi man mano in gruppi, vengono indirizzati verso l’autobus delle Misericordie che deve portarli all’hotspot. Essi hanno gli occhi di chi finalmente tocca terra, tremano infreddoliti, molti sono visibilmente denutriti, dalle braccia esili. Un venerdì sera della seconda metà di ottobre ne sono arrivati in tutto 317, partiti dalla Libia, provenienti dalla Guinea, dall’Eritrea, dal Senegal, un piccolo gruppo dal Marocco. Donne, tra cui almeno un paio incinte, e bambini. Una volta partito l’autobus diretto al centro, gli altri gruppi ne attendono il ritorno per essere prelevati, disposti in fila sotto un muro verso l’uscita del molo. Le persone che hanno presumibilmente la scabbia vengono isolate dagli altri e raccolti in gruppo alla fine della fila. Quel venerdì vi erano tra esse donne eritree con bambini, una carezza non è bastata per distrarli dal trauma del viaggio.
Ci sono in alcuni casi arrivi di poche persone che hanno bisogno urgente di cure mediche, recuperate nei vari salvataggi e poi trasferite separatamente dalla Guardia Costiera a Lampedusa, in quanto primo punto di soccorso. Ricordo una sera in cui ne portarono in sei, i loro corpi erano nascosti in una tuta bianca, uno di essi aveva un piede rotto. Capita che gli infortuni, se non le morti, avvengano durante le operazioni di salvataggio. Altre volte quelli che arrivano feriti hanno subito torture in Libia.
Fino al 2013 i pescherecci venivano portati qui sull’isola. Dopo la strage del 3 ottobre 2013, i salvataggi vengono fatti a distanza dalla costa e le barche vengono distrutte a mare o a lasciate alla deriva. Ora i migranti partono a bordo di gommoni e non più di pescherecci, questo in parte perché per i trafficanti è più economico non usare le barche che vengono poi distrutte, in parte perché, le navi di salvataggio operano a largo delle coste libiche, sconfinando nelle acque territoriali della Libia dentro le 25 miglia, ed il tragitto per i migranti diventa più breve.
Sabato mattina, verso le 8.00, sono giunte applaudendo 425 persone a bordo di tre motovedette della guardia costiera. Un applauso commovente che ha contagiato noi tutti in attesa al molo e che racchiude tutto il senso di chi ce l’ha fatta. “Applaudono perché non sanno cosa gli aspetta”, ha detto con amarezza un operatore, pensando probabilmente ai lunghi tempi di attesa nei centri di identificazione e di accoglienza, alle difficili procedure per ottenere permessi e diritto di asilo, al rischio per alcuni di essere rimpatriati o di veder violati i propri diritti fondamentali.
Erano nigeriane la maggior parte delle persone di quest’ultimo sbarco – tra di esse una quarantina di donne e bambini, di cui un neonato – il resto provenivano da Gambia, Congo, Senegal, Guinea. C’era anche un ragazzo dai tratti arabi, mi ha detto che era siriano e che aveva fatto un lungo viaggio prima di imbarcarsi, dalla Siria all’Egitto alla Libia. Una scelta probabile conseguenza alla chiusura della rotta balcanica. I migranti erano tutti in buone condizioni tranne alcuni casi, di cui una donna che è stata portata via in ambulanza con dolori addominali.
Ieri sono arrivati all’una e un quarto di notte i 29 sopravvissuti all’ultimo naufragio avvenuto davanti le coste libiche, costato la vita a 12 persone mentre un centinaio dovrebbero essere i dispersi. Le donne e gli uomini, provenienti in gran parte dalla Guinea, erano visibilmente scossi e traumatizzati. Facevano fatica a muoversi e sotto braccio sono stati condotti al bus che li avrebbe condotti all’hotspot. Tra loro una donna gravemente ustionata è stata trasferita al pronto soccorso. Ogni sbarco porta con sé un carico di sofferenza, dolore, morte. Ad ogni numero di persone salvate si accompagna un numero di persone decedute o disperse. È un tragico conteggio quotidiano.
L’hotspot di Lampedusa, il primo istituito in Europa il 1 ottobre 2015, in grado di ospitare, secondo la Prefettura di Agrigento, un massimo di 381 persone, ne ospita al momento in cui scrivo almeno 700. La natura stessa degli hotspot, centri per l’identificazione, la registrazione e il rilevamento delle impronte digitali dei migranti in arrivo, è in realtà incerta e priva di legittimazione giuridica, una misura europea che non è trasposta in alcun atto normativo e che ha la funzione principale di distinguere tra chi è appena sbarcato i richiedenti asilo dai migranti economici. Le persone incluso i minori sono sottoposte a trattamenti lesivi della dignità umana, denunciano difensori dei diritti umani dei migranti osservando inoltre una carenza di controlli sull’erogazione di servizi da parte degli enti gestori. A causa del sovraffollamento, “alcuni hanno dormito all’esterno della struttura e sono state date loro delle coperte non sufficienti a coprire tutto il corpo”, mi ha riferito un’operatrice. A ciò si aggiungerebbe un’informazione insufficiente data ai migranti sui propri diritti, sulle possibilità di richiedere asilo e protezione internazionale.
Un degno ultimo saluto
Qualche giorno fa, al cimitero, è stata portata la salma di una donna migrante, forse di nazionalità nigeriana, deceduta per arresto cardiaco, probabile conseguenza di ustioni. La polizia ne ha ispezionato il corpo all’interno della camera mortuaria, successivamente all’esterno di essa don Carmelo, il nuovo parroco di Lampedusa, ha celebrato una breve cerimonia funebre nel corso della quale, con persone della realtà solidale locale, ci siamo raccolti in un momento di preghiera. Non si conosce il nome della donna. Il forum Lampedusa solidale, Mediterranean Hope e la parrocchia di San Gerlando si impegnano anche nel lavoro di recupero dei dati dei migranti deceduti affinché siano apposti i loro nomi sulle lapidi, un lavoro che richiede tempo e il superamento di ostacoli burocratici. La donna sarebbe stata poi trasferita a Palermo.
Patologie da migrazione
Ci sono migranti che arrivano “con ferite da arma da fuoco, soprattutto agli arti inferiori, ad esempio al femore. Pazienti con sindrome da annegamento e crisi respiratorie”, racconta Pietro Bartolo, direttore sanitario del Poliambulatorio di Lampedusa. Di fatti, alcuni migranti vengono feriti quando rifiutano di spostarsi da un barcone all’altro e gli spari avvengono a distanza ravvicinata. Ci sono persone che sono state torturate, racconta Bartolo, mentre molte delle donne che arrivano sono state violentate, alcune hanno riportato segni di bruciature di sigarette. Bartolo, mostrandomi immagini di gravi ferite, parla di quella che definisce la “patologia dei gommoni”, ovvero le gravi ustioni chimiche provocate dal contatto con la miscela di benzina e acqua di mare, difficili da trattare, deturpano per sempre il corpo, portando in alcuni casi alla morte.
Nel frattempo, il medico racconta dell’esperienza del parto, mostrando l’immagine di un cordone ombelicale che ha stretto con lacci di scarpe, in assenza di altro, a bordo di una motovedetta della guardia costiera, o quella di un’altra donna che aveva partorito a bordo di un gommone e si era strappata i capelli, stringendo con essi il proprio cordone ombelicale. Il viaggio di queste persone partite da Nigeria, Eritrea, Somalia e da altri paesi per raggiungere la costa libica attraverso il deserto, seguendo le due principali rotte migratorie – quella dell’Africa occidentale, attraverso il deserto del Niger e la Libia e la rotta dell’Africa orientale, dall’Eritrea e dall’Etiopia attraverso il Sudan e la Libia – spesso dura un anno e mezzo o due anni nel corso dei quali, soprattutto in Libia, esse sono vittime di violenze, prigionia, schiavitù da parte di gruppi criminali, tra questi gli “Asma Boys” che operano in Libia, che gestiscono il traffico di esseri umani e la tratta di ragazze da avviare alla prostituzione – le giovani vengono rapite e liberate dietro un riscatto che spesso viene chiesto alle stesse di pagare attraverso la prostituzione – nonché traffico di organi – a cui si è arrivati attraverso alcune testimonianze – di cui è vittima chi non ha soldi per pagarsi il viaggio.
Alle comuni patologie quali l’ipotermia, la disidratazione, la scabbia, le ustioni chimiche, si aggiungono i traumi psicologici, compreso quelli subiti nei propri paesi d’origine. “I bambini sono quelli che li superano meglio. Quelli che vengono torturati, picchiati, le donne violentate, si può pensare che restino indenni da queste violenze? Io credo tuttavia che siano più forti di noi, riescono a superare ogni cosa, anche il travaglio lo affrontano in maniera diversa, in silenzio. Hanno una dignità impressionante”. Bartolo si indigna poi davanti alla differenza tra migranti economici e rifugiati: “Che differenza fa morire di guerra o morire di emaciazione?”. Nena News
(continua)