REPORTAGE. Giovanni D’Ambrosio ci racconta la storia di Hatem partito dopo molte difficoltà dalla Libia alla volta dell’Italia e quindi dell’Europa, ricordandoci che dietro gli arrivi dei migranti sulle nostre coste ci sono storie fatte di sofferenza, ma anche di lotte e speranze a volte tradite
di Giovanni D’Ambrosio
Roma, 8 aprile 2020, Nena News – Hatem ha cercato di fuggire dalla Libia tre volte prima di riuscirci. La prima volta non era da solo. Insieme a Walid, un amico, hanno organizzato il viaggio, hanno cercato informazioni, hanno chiesto a parenti e conoscenze, ma presto si sono resi conto che in Libia, il paese dei trafficanti, tentare di attraversare il mare non era cosa per libici. Per anni, anni di guerra, Hatem cerca i contatti giusti, chiedendo a chiunque possa conoscere le regole del gioco. Capiscono in fretta che i trafficanti preferiscono di gran lunga fare affari con africani, bengalesi, algerini, egiziani, siriani. I libici no, sanno troppo. Nel caso venissero fermati dalla cosiddetta guardia costiera potrebbero rivelare informazioni importanti alla polizia di frontiera. Oppure potrebbero essere delle spie. Meglio tutelarsi e non fare affari con i connazionali che vogliono scappare. Con i traditori.
Hatem e Walid dopo numerosi tentativi riescono infine a contattare qualcuno, e lo trovano tramite uno dei mezzi che hanno scoperto e utilizzato durante le proteste anti-Gheddafi: Facebook. Consigliati da conoscenti, trovano il profilo di un certo Hajinazer, che trasporta uomini e donne al di là del mare. C’è addirittura il numero di telefono a cui chiamare, testimonianze audio e video di persone che sono passate, che sono riuscite a partire e ad arrivare in Italia e consigliano Hajinazer perché è un uomo di parola, perché non vi farà mancare niente, perché lui è il migliore nel suo lavoro.
Una sorta di trip advisor del traffico di esseri umani. Può sembrare assurdo che un trafficante mostri il suo lavoro sui social network, eppure è lì che Walid e Hatem hanno stabilito il primo contatto. Si vede che non si sentiva particolarmente in pericolo di esporsi pubblicamente. Hanno guardato i video in cui diverse persone affermavano il buon trattamento che avevano ricevuto, le belle condizioni in cui avevano dormito la notte prima di partire e hanno deciso di fidarsi. Hatem e Walid hanno un’idea per oltrepassare i sospetti nei confronti dei libici, camuffare il loro accento con quello tunisino – il confine è solo a pochi chilometri dalla città in cui sono cresciuti – e fingersi qualcuno che non sono. Il numero di telefono era lì, lo hanno preso e chiamato, bisognava fare in fretta.
Hatem e Walid erano parte del movimento di protesta contro Gheddafi iniziato il 17 febbraio. Durante la lotta di liberazione dal regime erano parte del “Libyan media center”: avevano imparato a utilizzare Facebook e Twitter per organizzare manifestazioni, testimoniare la repressione omicida dei soldati di Gheddafi, diffondere le parole chiave della protesta antigovernativa. Poi qualcosa è degenerato, la guerra civile, l’intervento di eserciti stranieri, gli interessi legati al petrolio, la complessità della geopolitica internazionale aveva soffocato la semplice fiamma del cambiamento, della ribellione. La loro rivoluzione tanto immaginata doveva portare a una Libia ben diversa da quella che la vista allora gli proponeva. Avevano lottato per la giustizia sociale e i diritti civili, la democrazia, la libertà e il pane. E ora dovevano nascondersi.
La città da cui entrambi provenivano era tradizionalmente leale a Gheddafi. E anche se lui era morto non era venuta meno la fedeltà degli abitanti al vecchio sistema. Avevano provato a fuggire, ma erano stati ripresi. Avevano provato a ucciderli. Hatem era stato rapito da una banda locale e rilasciato solo dopo che la famiglia aveva pagato un riscatto; mentre a Walid gli hanno sparato e solo per un soffio è riuscito a sfuggire alla morte. Dopo questi episodi, la Libia, almeno per loro, era condannata. Il gioco si era bloccato, la guerra sarebbe durata ancora per chissà quanti anni e loro non potevano più rimanere. La loro rivoluzione contro Gheddafi aveva fallito.
È aprile 2017. Il telefono squilla, Walid guarda distrattamente lo schermo, poi sobbalza, lo afferra e risponde agitato, «Pronto?». «Partiamo stasera, state pronti, vi dirò dove e quando». «Ci sono solo io, Hatem non potrà venire». «Poco importa, a stasera», e chiude. Hatem ha avuto un contrattempo, non potrà esserci ma spera di poter recuperare i soldi che aveva investito nel viaggio. Non succederà. Walid però non può rischiare di perdere questa occasione, bisogna provare.
Ci avevano messo troppo tempo per trovare questo Hajinazer, e organizzare il viaggio, e poi si fidava, sarebbe andata bene. Hajinazer aveva assicurato che sarebbero partiti su una barca grande, comoda, in buono stato. A quanto pare ci sarebbe stato un navigatore esperto alla guida, un gambiano. Avevano visto i video delle persone soddisfatte. Sarebbe andato tutto bene, pregava. Il luogo dove avrebbero passato la notte era lurido e sporco, e sicuramente non era un hotel, come gli avevano fatto intendere gli intermediari. Era un edificio abbandonato sulla costa. Ma era solo l’inizio di una serie di malaugurate sorprese.
Nella notte vengono portati su una spiaggia tra Al-Zawiya e Sabrata, costa ovest arrivando da Tripoli. Lì, uomini armati puntano fucili contro le persone intimando di lasciare tutti quello che hanno: borse, valige, sacchi, cibo, non serviranno. La vista delle armi puntate e cariche zittisce il mormorio di disappunto nato alla vista dell’imbarcazione che avrebbero utilizzato per attraversare il mare. Era un piccolo peschereccio su cui avrebbero dovuto stringersi 33 persone tra cui alcuni bambini, molti sotto i 10 anni. Intanto qualcuno nel gruppo viene preso e messo di fronte a una telecamera.
Deve testimoniare che Hajinazer tratta bene i suoi migranti, che non gli fa mancare nulla e che sono tranquilli per la traversata. Tutto questo con un fucile puntato. Viene distribuito a tutti un numero di telefono libico da chiamare quando sono in Italia. Viene detto loro che questo tale potrà aiutarli una volta sbarcati. Partono. Dopo tre ore di navigazione il sole sta iniziando a fare capolino da Oriente, poco dopo il peschereccio inizia a imbarcare acqua. La gente si spaventa, ma non c’è niente da fare.
Solo Walid si era scritto il numero di soccorso dell’Operazione Sophia, che all’epoca pattugliava il Mediterraneo, e inizia a chiamare, chiamare, chiamare in continuazione. Quando rispondono cerca di spiegare dove si trovano: «Siamo partiti da x ore, da quella spiaggia della Libia. Andiamo a una velocità di x nodi in direzione…», così sperano di essere localizzati, ma non arriva mai nessuno. L’acqua sale, passano le ore. Poi un rumore di aereo. Ancora non lo sanno, ma sopra di loro i volontari dell’Operazione Moonbird li hanno individuati, sanno che stanno imbarcando acqua e infatti hanno velocemente mandato le coordinate alla Sea-Watch 2 che si trova in acque internazionali.
Poco dopo, ecco la nave di Sea-Watch, «Persone straordinarie», racconta Walid, «Se fosse passata ancora un’ora probabilmente saremmo tutti morti affogati». Arrivati in Italia, c’è chi prova a chiamare quel numero fornito dal trafficante. Ma si rendono conto che anche questo è una trovata pubblicitaria di Hajinazer. Le chiamate sono registrate, a lui interessa la parte in cui si dice che sono arrivati in Italia, per convincere altri a partire con lui. Semplice marketing.
Autunno 2019. Hatem da quando Walid è partito ha provato ad andarsene altre due volte dalla Libia. La prima volta non gli è andata bene. La persona con cui aveva parlato si era intascata i soldi per il viaggio ed è sparita. La volta successiva allora Hatem aveva deciso di prendere più precauzioni. Non avrebbe più finto di essere tunisino, non sarebbe andato dal primo che gli prometteva di attraversare il mare senza rischi. Questa volta Hatem decise di utilizzare la sua rete di contatti di fiducia allargandola il più possibile. Pazientemente porta avanti questo lavoro di rete, fino a quando, tramite conoscenze, ha trovato qualcuno di cui si fidava davvero. 9.000 dinari gli era costato il viaggio per imbarcare sé e la sua famiglia. 5.900 euro.
Questa volta aveva deciso di provarci con loro, di portarli via dalla guerra. Era in una barca con decine di altre persone. Alcuni, pochi, erano libici, come lui, ma la grande maggioranza arrivavano dal Bangladesh o dall’Algeria. Poco importa perché non era passata neanche un’ora da quando avevano lasciato le coste libiche che una motovedetta della polizia di frontiera li aveva intercettati. Dalla barca su cui si trovava Hatem gridava, arrabbiato, ai militari, mentre questi ordinavano di salire sulla motovedetta «Se torniamo indietro moriremo, lasciateci andare!», e loro rispondevano «State zitti, zitti o vi ammazziamo!».
Hatem e la sua famiglia sono libici, quindi non sono stati portati in prigione, nelle prigioni per migranti. Ha passato solo qualche ora nel commissariato, dove lo hanno interrogato e rilasciato. Fortunatamente il contatto di sua fiducia, il trafficante, gli ha pure ridato i soldi della traversata. E intanto la guerra continua, Tripoli è assediata, sembra che Haftar abbia la meglio, poi Al-Serraj ottiene l’appoggio di quel capo di stato europeo, la Turchia si schiera e allora ricomincia tutto da capo. «Due idioti», dicono all’unisono Walid e Hatem, riferendosi ai protagonisti della politica nazionale libica.
Hatem non è una persona che si arrende facilmente. Dopo gli ultimi bombardamenti su Tripoli decide di tornare al paese dov’è nato e cresciuto, sulla costa Ovest, vicino alla Tunisia. È iniziato il 2020. E sono passati tre anni dalla prima volta che ha provato ad andarsene. Lì inizia a pensare a un’alternativa valida ai trafficanti. Parlando con alcuni amici che condividono le medesime aspirazioni, pian piano si concretizza un’idea: vendere la casa, comprare una barca con cui partire, oltrepassare lo stesso sistema gestito dai trafficanti. Ma serviranno tanti soldi per comprarla. Alla fine sono quattro le famiglie che Hatem riesce a contattare con il passaparola. Insieme riescono a riunire abbastanza denaro per comprare un piccolo motoscafo, anche se piuttosto spazioso.
Li ho visti scendere da quella barca nella notte tra il 16 e il 17 febbraio, al molo commerciale di Lampedusa. A mezzanotte eravamo lì, quando è scoccato l’anniversario delle proteste anti-Gheddafi del 2011. C’erano bambini, anziani, donne e uomini. Sono entrati nel porto quasi in punta di piedi, senza far rumore. Sono scesi con zaini e valige. I bambini, dopo un piccolo pianto, hanno riso e hanno iniziato a correre sul molo, prima di essere trasferiti dentro l’hotspot di contrada Imbriacola, a Lampedusa, in Italia.
Non sembrava che avessero passato 18 ore in mare, eppure è questo il tempo che ci hanno messo per raggiungere le coste Lampedusane. I «presunti profughi», «La Libia è un paese sicuro», «Altro che profughi con le valige e il telefonino», «guarda come sono in salute», «falsi minorenni», sono le immagini semplificanti e stereotipate diffuse dalla propaganda sovranista nel descrivere gli arrivi sulle nostre coste. Instillare il dubbio che sia in atto una grande truffa ai danni degli italiani, una minaccia, un complotto, un attacco.
Ecco questo articolo ha lo scopo di ricordare perché le persone si mettono in mare, perché rischiano la vita per raggiungere Lampedusa e l’Europa. E anche per ricordarci che dietro questi arrivi ci sono storie fatte di sofferenza, certo, ma anche di lotte e speranze alcune volte tradite. Nena News