Un mercantile respinge in Libia 51 migranti trovati in acque SAR maltesi. Erano stati segnalati per giorni da Alarm Phone, prima che si perdesse traccia. A bordo cinque morti. Alle navi della società civile Alan Kurdi e Aita Mari intanto è negato il “porto sicuro” . Il racconto da Lampedusa
di Giovanni D’Ambrosio
Lampedusa, 17 aprile 2020, Nena News – L’Alan Kurdi, imbarcazione dell’ong tedesca Sea-Eye impegnata in attività SAR -Search and Rescue il 30 marzo lascia gli ormeggi e si allontana dal porto spagnolo in cui si trovava per far rotta verso il Mediterraneo centrale.
Dalla fine di febbraio le acque internazionali di fronte alle coste libiche sono rimaste scoperte da imbarcazioni di salvataggio e questa è la prima, dopo il blocco deciso il 9 marzo, che si avvicina alla zona di ricerca e soccorso. La decisione è stata presa probabilmente in modo da non fomentare i pretesti per stigmatizzare ancora più duramente le navi delle ong impegnate in mare.
Una dopo l’altra, Sea-Watch, MSF, Mediterranea Saving Humans hanno dichiarato l’interruzione delle attività. Ma chi tenta di attraversare il mare non attende certo la loro presenza per decidere di partire. Gli unici pull factors presenti nel Mediterraneo sono i combattimenti in Libia e l’altezza delle onde del mare, che permette o meno di intraprendere il viaggio verso l’Europa. A marzo infatti sono più di seicento le persone che sono state intercettate e respinte dalla cosiddetta guardia costiera libica.
Non bisogna attendere molto dalla partenza della nave per iniziare a sentire levarsi dall’Italia un coro di voci ostili, critiche, alla ripresa delle operazioni di soccorso nel Mediterraneo Centrale. Dopo la partenza della Alan Kurdi, La Stampa pubblica un articolo dal titolo «Torna in mare la nave Alan Kurdi, della ong tedesca Sea Eye. L’Italia alla Germania: “Gestitela voi”».
L’autore elenca i motivi per cui il ritorno delle ong in zona SAR libica sia fuori luogo in un momento in cui «il governo italiano alle prese con la drammatica emergenza sanitaria del Covid-19, non ha alcuna intenzione di affrontare pure il problema degli sbarchi». L’arrivo di centinaia di migranti, afferma l’autore dell’articolo, rischierebbe di «trasformarsi nel detonatore di un’esplosione di rabbia incontrollata».
Il quadro ritratto raffigura una nazione ferita e intenta a proteggersi, oltre che dal virus, anche dalle sconsiderate azioni di ong straniere – ritorna in questo caso il topos riguardo l’anti-italianità delle ong. Non ci interesserebbe particolarmente questo articolo, se non fosse che il 7 aprile il governo emana un decreto ministeriale di salviniana memoria – non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale –, firmato dai ministri Di Maio, Lamorgese, De Micheli e Speranza.
All’interno si legge «Per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria nazionale […] i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione di Place of Safety (“luogo sicuro”), […] per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area SAR italiana». L’ultima frase sembra descrivere la situazione che in queste ore vive l’Alan Kurdi.
Dopo alcuni giorni di navigazione, il 5 aprile la nave raggiunge le acque internazionali ad alcune miglia dalle coste libiche dove prontamente avviene il primo soccorso. La guardia costiera libica, nelle vicinanze, spara in aria colpi di avvertimento. Molti migranti, privi di giubbotti di salvataggio, si gettano in mare impauriti. Fortunatamente non ci sono vittime e sono tutti portati in salvo sulla Alan Kurdi.
Passano alcune ore e l’Alan Kurdi risponde alla seconda richiesta di soccorso nei dintorni delle piattaforme petrolifere che si trovano a poche decine di miglia dalle coste libiche. L’asso Ventinove, nave di supporto appartenente alla flotta dell’Augusta Offshore, azienda italiana con sede a Napoli che offre servizi a Mellitah Oil & Gas, Eni North Africa e Mabruk Oil nelle attività di estrazione nel Mediterraneo, si rifiuta per ore di offrire soccorso alle persone in difficoltà.
Finalmente dopo l’arrivo dell’imbarcazione della ong Sea-eye, i naufraghi si trovano in salvo a bordo dell’imbarcazione. Ed è quando questa si dirige verso le coste italiane e maltesi che il decreto sui “porti non sicuri” viene pubblicato.
Negli stessi giorni a Lampedusa si respira un’aria piuttosto tesa. Il mare calmo ha permesso a numerose imbarcazioni di raggiungere autonomamente l’isola. La prima trasportava 34 persone, tra cui due donne in stato di gravidanza. Vengono prontamente condotte nell’hotspot dell’isola, dove dovranno aspettare 14 giorni prima di essere portate in Sicilia. Nelle ore seguenti altre due barche entrano in porto. In totale si tratta di 124 persone.
Non potendo portarle al centro di accoglienza per evitare i contatti con le persone già in quarantena, sono lasciati per ore al Molo Favarolo. In molti passeranno su quella banchina la prima notte in Europa e gran parte del giorno successivo. Alcuni abitanti dell’isola iniziano a innervosirsi. Le voci che la malattia si diffonda con gli arrivi sui barconi è una convinzione che da mesi gira a Lampedusa. Il mito dello straniero untore è ben radicato nell’immaginario comune di alcuni lampedusani, come di tanti altri italiani.
In deroga a qualsiasi norma di prevenzione del contagio, di fronte al municipio di un’isola che spesso ha dato esempio di accoglienza e solidarietà si raduna una piccola folla. Gridano contro il sindaco. Vogliono la fine degli sbarchi e il trasferimento dei «clandestini». Solo una voce, in un italiano stentato, emerge dicendo «Ma sono umani, come noi, dovremmo aiutarli». Si alza un vociare indistinto, l’uomo, a quanto sento dire spagnolo, viene allontanato da un agente della finanza.
Nel comunicato pubblicato sulla pagina Facebook del sindaco, l’amministrazione chiede l’invio di una “nave dell’accoglienza” ormeggiata di fronte al porto. «Non è possibile ospitare altri migranti poiché sull’isola non ci sono strutture adeguate, ma non è neppure possibile pensare di lasciare questa gente a tempo indeterminato sul Molo Favaloro in attesa del trasferimento. Se ci fosse una nave qui di fronte – aggiunge Martello – i migranti potrebbero essere intercettati già prima di arrivare sull’isola o, in caso di sbarchi “autonomi”, verrebbero immediatamente trasferiti a bordo». Alla fine alcuni dei migranti sul molto sono trasferiti a Porto Empedocle, mentre le ultime decine rimaste sono condotti in serata all’hotspot dove sconteranno il periodo di quarantena.
Il mare intanto è piatto, i combattimenti in Tripolitania si intensificano e sempre più persone prendono la via del mare. Secondo i dati pubblicati dall’Oim – l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni – circa 280 migranti sono stati intercettati e ricondotti a Tripoli nella sola giornata dell’8 aprile.
Una volta in porto «rimangono sulle navi sovraffollate della guardia costiera, siccome le autorità libiche rifiutano di lasciarli sbarcare. Importanti funzionari hanno spiegato che a causa dell’intensità dei bombardamenti, la Libia non è da considerare un porto sicuro», scrive l’Oim in un comunicato stampa.
A poche ore dalla diffusione della notizia che l’Italia ha dichiarato i suoi porti non sicuri, la Libia, un paese in guerra da nove anni, in cui vige il coprifuoco a causa della minaccia del virus, fa lo stesso. La misura è stata solo temporanea, dopo la notte passata all’addiaccio sulle navi della guardia costiera che li aveva intercettati i migranti sono stati smistati in due centri di detenzione, uno dei quali non ufficialmente riconosciuto dal governo di Tripoli.
Eppure basta questo per stracciare l’ipocrisia di anni di accordi e finanziamenti che hanno assicurato alla Libia, almeno in teoria, la definizione di “porto sicuro”. Chi ci rimette sono i migranti. Partiti, intercettati e respinti, respinti ancora e lasciati ad attendere la loro sorte sulle motovedette della cosiddetta guardia costiera libica nel porto di Tripoli.
Nel Mediterraneo altre barche sfidano la sorte e attraversano il mare. Alcune di queste riescono ad aprirsi una via nella zona di competenza SAR maltese. Sono in contatto con Alarm Phone che segnala insistentemente alle autorità dei due paesi la loro posizione chiedendo insistentemente un intervento. Per più di 40 ore, 66 persone navigano verso nord senza ricevere alcun tipo di assistenza.
Solo quando si trovano ai confini con le acque territoriali maltesi, una nave militare – la P51 – si avvicina e, a quanto scrive Alarm Phone in contatto con le persone a bordo, danneggia il motore della barca in attesa di essere soccorsa. Poi accade qualcosa, decidono di soccorrere comunque i migranti e di portarli a terra.
Una dichiarazione del governo dell’isola, di poco successiva all’operazione di salvataggio, afferma che Malta non si trova più nella posizione di poter garantire le operazioni di salvataggio dei migranti in zona SAR di sua competenza e non permetterà a persone soccorse da altri di sbarcare sul suo territorio.
Le motivazioni che giustificano questa decisione sono molto simili a quelle riportate dal governo italiano. L’epidemia di coronavirus fornisce il contesto di eccezionalità in cui adottare misure emergenziali di questo genere, sospendendo de facto e de iure il diritto internazionale.
I porti sono chiusi alle navi straniere che hanno soccorso imbarcazioni in pericolo nel Mediterraneo. L’Alan Kurdi prosegue il suo viaggio lungo la costa. Da nove notti ormai 150 persone sono costrette a dormire sull’imbarcazione dell’ong impossibilitata a completare il salvataggio. Costeggia la Sicilia e si dirige verso Palermo.
Sembra che i migranti dovranno scontare a bordo i 14 giorni di quarantena previsti dalle procedure inaugurate dopo la diffusione dell’epidemia. Periodicamente vengono inviati sulla nave viveri e materiale sanitario, ma le condizioni di salute di alcuni si deteriorano e sono costretti a essere evacuati in Italia.
Altre quattro barche con migranti a bordo si trovano intanto nel Mediterraneo. Da giorni gli operatori di Alarm Phone fanno pressione sulle autorità italiane e maltesi perché si facciano carico delle operazioni di soccorso, non ottenendo alcuna risposta. Due di queste riescono però a raggiungere in autonomia le coste sicule approdando a Pozzallo e a Portopalo di Capo Passero.
Un’altra imbarcazione con 47 persone a bordo si trova in grave difficoltà tra Malta e Lampedusa. A nulla servono gli appelli della società civile perché vengono soccorsi. Da giorni si trovano in mare, disidratati. Alarm Phone diffonde alcuni audio dei migranti in mare che chiedono aiuto alle autorità.
Una donna al telefono dice «Qui non va bene, non va bene. Io sono incinta e non sto bene. La mia bambina è molto malata. Non abbiamo cibo, né acqua. Non abbiamo niente. Io sono incinta, lei ha sette anni. Dicevano che sarebbero venuti, ma non si è fatto vedere nessuno». Ancora una volta, sono le navi della società civile invece che gli stati a prendersi la responsabilità di portare soccorso ai naufraghi.
L’Aita Mari, peschereccio basco dell’ong Salvamento Maritimo Humanitario, si trova nel porto di Siracusa ed era salpata alla volta della Spagna. Sono loro a salvarli, anche se privi del personale e dell’attrezzatura medica necessaria. Sei persone a bordo vengono trovati in uno stato di incoscienza, probabilmente a causa del sole e della disidratazione.
Ora anche loro, come coloro a bordo dell’Alan Kurdi si trovano fermi nel Mediterraneo in attesa che l’Italia o Malta si decidano a farli sbarcare, mentre quasi ogni giorno migranti in condizioni di salute critiche sono evacuati e trasferiti sull’isola di Lampedusa.
Per la prima volta dall’inizio di aprile, il vento si rafforza di giorno in giorno e inizia ad alzare pericolosamente le onde del mare. Ancora un gommone manca all’appello, a bordo circa 55 persone. Sono state, come le altre imbarcazioni in pericolo, segnalate per giorni da Alarm Phone. A causa della pressione dell’opinione pubblica, e delle condizioni del mare in rapido peggioramento, il governo di Malta da ordine al mercantile Ivan, che si trova nei pressi dell’imbarcazione ed è diretto a Genova, di prendere in mano le operazioni di soccorso. La Ivan è una nave gigantesca, inadatta a intervenire in questo genere di situazioni.
All’incirca così infatti deve aver risposto alla richiesta di Malta, riprendendo in seguito il suo viaggio verso Nord. È stato l’ultimo avvistamento dei 55 migranti. Da allora, le ricerche del gommone a Sud, Sud-Est di Lampedusa si susseguono, ma non viene comunicato alcun ritrovamento.
La ministra delle Infrastrutture De Micheli, a cui risponde la Guardia Costiera, ha affermato in una trasmissione su La7 a proposito della situazione nel Mediterraneo che «sia Frontex che la Guardia Costiera hanno ribadito che non ci siano stati naufragi in queste ore. Abbiamo il Mediterraneo sotto controllo, non abbiamo nessuna intenzione di abdicare al nostro ruolo». Intanto aumentano i timori per le persone a bordo del gommone scomparso.
L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, in un comunicato diffuso sul suo account Twitter nel pomeriggio di mercoledì 15 aprile, afferma che un’imbarcazione con 47 persone a bordo, poi corretto a 51, e cinque corpi senza vita è stata soccorsa da una nave mercantile nella zona di competenza SAR maltese e sono stati, illegalmente, trasferiti su un peschereccio libico e poi riportati in Libia. Sembra essere confermato che si tratti dello stesso gommone andato alla deriva per giorni.
Ciò che appare chiaro è che la Libia continua, a dispetto dei bombardamenti sul porto della settimana scorsa, a essere considerata un porto sicuro dove riportare i migranti intercettati in mare con la complicità dei velivoli di Frontex e della Guardia Costiera, al contrario non sia riconosciuto ai porti italiani e maltesi. Nena News
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