Ieri Erdogan ha ribadito l’intenzione di non ritirare le truppe, mentre Baghdad si prepara a denunciarlo all’Onu. Manifestazioni in tutto il paese contro Ankara, l’ex premier al-Maliki carica le milizie sciite.
della redazione
Roma, 12 dicembre 2015, Nena News – La crisi turco-irachena non riguarda più solo i vertici: ieri piazza Tahrir a Baghdad si è riempita di migliaia di persone, scese in strada per protestare contro il dispiegamento da parte di Ankara di 150 soldati e decine di carri armati alle porte di Mosul, la scorsa settimana. Non solo a Baghdad: nel centro e sud del paese, nelle aree a maggioranza sciita, la gente ha chiesto l’immediato ritiro delle truppe e l’esplusione dal paese dell’ambasciatore turco a Baghdad.
Alla voce popolare si aggiunge quella istituzionale, che resta apparentemente inascoltata dalla comunità internazionale. La Turchia non intende rispondere, o meglio lo fa per poi lasciare tutto com’è: ieri una delegazione turca è volata nella capitale irachena per incontrare il governo e discutere di “cooperazione militare”, mentre il presidente Erdogan parlava di un accordo in merito firmato 18 mesi fa. Tutto risolto per Ankara, i soldati resteranno dove sono, nella base di Bashiqa, a 20 km da Mosul: “Al momento il ritiro è fuori discussione – ha detto Erdogan – Non si tratta di mantenere trupper da combattimento ma di proteggere gli ufficiali che fanno addestramento”. E va oltre, sfidando apertamente Baghdad: “Dobbiamo aspettare l’invito del governo centrale dell’Iraq quando c’è un attacco al nostro paese? Non possiamo permetterci questi lussi”.
Parole che hanno fatto infuriare Baghdad e che aprono ad una rottura più seria. Dopo l’incontro delle due delegazioni, a sentire l’Iraq, la situazione non è affatto risolta. Il premier al-Abadi insiste, nessuno ha dato il consenso alla Turchia né ha richiesto l’invio di truppe sul proprio territorio: “Alla delegazione turca è stato detto che il solo modo per risolvere la crisi è il pieno ritiro delle truppe turche dal territorio iracheno”.
Insiste e si rivolge alle silenziose Nazioni Unite: il primo ministro ha dato ordine al ministro degli Esteri di inviare una denuncia formale al Consiglio di Sicurezza contro “una palese violazione della Carta Onu” e perché imponga al vicino il ritiro.
Di certo la crisi con Ankara compatta le fila irachene: ieri ad alzare la voce contro le mosse del sultanotto Erdogan sono stati avversari storici. L’Ayatollah al-Sistani e l’ex premier al-Maliki. La più alta figura religiosa sciita del paese, da Karbala, ha chiesto al governo di non mostrare “alcuna tolleranza” verso chi viola la sovranità del paese: “Nessun paese – ha detto – dovrebbe mandare i suoi soldati nel territorio di un altro Stato dietro il pretesto di sostenere la sua lotta contro il terrorismo, senza che prima ci sia stato un accordo”. Perché questo la Turchia ha fatto: accordi con Baghdad non ne ha presi, ma – ancora una volta – ha bypassato il governo centrale per definire i dettagli della cooperazione miliare con il Kurdistan iracheno del presidente Barzani.
Un mese fa, all’inizio di novembre, Ankara e Erbil hanno siglato un accordo che prevedeva l’ingresso di truppe turche nelle zone controllate dai peshmerga e – pare – la creazione di una base militare alle porte di Mosul, da cui coordinare o lanciare la controffensiva sulla seconda città irachena. Una sfida aperta a Baghdad e all’unità del paese, a cui più di una forza sta mirando: non è un segreto il piano di divisione federale dell’Iraq in tre aree etniche e religiose (i kurdi a nord, i sunniti a ovest e gli sciiti a sud) disegnato dall’amministrazione Usa ai tempi dell’occupazione, una divisione oggi aiutata dagli scontri interni e le rappresaglie tra gruppi etnici e religiosi dentro il paese.
Parole simili dall’ex premier al-Maliki che non perde occasione per farsi rivedere sul palcoscenico iracheno: ieri durante una visita alle unità paramilitari Badr, ha avvertito del “tentativo dei nemici di dividere l’Iraq, incluso separare Mosul da Anbar”. E ha buttato benzina sul fuoco chiedendo alle milizie sciite di tenersi pronti per un eventuale confronto con il nemico, possibilità già paventata dagli stessi miliziani nei giorni scorsi. Buona parte delle milizie sono guidate e gestite dall’Iran: è Teheran che, se volesse, darebbe il via ad un’azione più o meno simbolica contro la Turchia. Un’azione che potrebbe però aprire a conseguenze più serie, viste già le tensioni tra Mosca e Ankara. Erdogan sta giocando con il fuoco. Nena News