Giornata di duri combattimenti nella città di Kobane, dove i curdi oppongono una strenua resistenza ai miliziani jihadisti che puntano a controllare la strada lungo la frontiera turco-siriana. In Iraq gli islamisti guadagnano terreno, nonostante i raid statunitensi
AGGIORNAMENTO ORE 14.45 - La Turchia non ha concesso basi militari agli Stati Uniti, riferisce l’agenzia France Press (Afp). Un funzionario del governo ha negato la notizia apparsa oggi sui media, secondo cui Ankara aveva raggiunto un accordo con Washington per la concessione delle basi sul suo territorio alla coalizione contro lo Stato islamico. “Non c’è alcun accordo”, ha detto all’Afp il funzionario rimasto anomino, “i negoziati sono in corso”, aggiungendo che restano le condizioni (impegno contro Assad, zona cuscinetto e no-fly-zone) poste dalla Turchia.
di Sonia Grieco
Roma, 13 ottobre 2014, Nena News - I caccia statunitensi per il momento non decolleranno dalle basi turche per colpire lo Stato islamico (Is) in Iraq e in Siria. Ankara smentisce la notizia circolata sui media, secondo cui averbbe dato il via libera a Washington, che guida la coalizione impegnata a contrastare l’avanzata dei jihadisti, per l’utilizzo delle sue basi militari (tra cui quella aerea di Incirlik) per i raid e per l’addestramento dei ribelli siriani considerati moderati, che da oltre tre anni cercano di rovesciare il presidente Bashar al Assad senza risultati. Obiettivo condiviso, e sostenuto a suon di armi e finanziamenti, dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan.
Intanto, la città siriana di Kobane, al confine con la Turchia, è sotto attacco dei miliziani islamisti, che l’hanno già conquistata in parte e martellano con armi pesanti i combattenti curdi, gli unici rimasti a difenderla. I bombardamenti della colazione capeggiata da Washington la notte scorsa hanno colpito postazioni jihadiste a sud-ovest del centro abitato, riferisce la Bbc, ma sinora non hanno fiaccato l’offensiva e Kobane rischia di cadere nelle mani dello Stato islamico, intenzionato a estendere il suo autoproclamato califfato dall’Iraq alla Siria. Se ciò avvenisse, oltre all’inevitabile massacro della popolazione, i jihadisti otterrebbero un vantaggio strategico notevole, controllando la strada lungo la frontiera turco-siriana. Potrebbero trafficare in armi e uomini, e finanziare così la loro impresa, in barba ai raid della coalizione, che finora non sono riusciti neanche a contenere le mire espansionistiche del califfato.
Uno scenario che fa venire i brividi, eppure Ankara, che ha l’esercito più forte della regione e fa parte della coalizione, sta letteralmente a guardare. Le sue truppe sono schierate in maniera massiccia a pochi chilometri dalla città e osservano senza alzare un dito la sua caduta. Erdogan non vuole intervenire, non vuole aiutare i curdi nel timore che lungo la frontiera si crei una zona autonoma curda dove il Pkk turco (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), con cui c’è un trentennale conflitto, possa installare le sue basi. Il premier sembra preferire gli islamisti ai curdi, lo ha anche dichiarato: “Il Pkk non è meglio dello Stato islamico”. Ha impedito il passaggio di combattenti curdi attraverso il confine turco, consentendo invece quello jihadisti, e chiede al Pentagono che la campagna militare contro lo Stato islamico includa anche un intervento contro Damasco. Il premier turco, Ahmet Davutoglu, ha auspicato la formazione di una “terza forza” in Siria, da creare sostenendo militarmente “l’opposizione moderata”.
La politica turca rischia di destabilizzare la regione e sta procurando problemi interni alla stessa Turchia, segnata negli ultimi giorni da manifestazioni e scontri con diverse vittime. Lungo il confine, rischia di diventare una tragedia umanitaria. Gli scontri che oggi si sono intensificati a nord di Kobane, minacciano di isolare la città e di impedire la fuga della popolazione verso la Turchia. Sinora in 200.000 hanno trovato rifugio oltreconfine. Le Nazioni Unite hanno parlato del pericolo di una “nuova Sebrenica”.
Il dramma di Kobane ha catturato l’attenzione internazionale, soprattutto per la stregua resistenza dei curdi che in questa città hanno applicato un modello amministrativo basato sulla partecipazione e la pacifica convivenza tra etnie e fedi. Un modello che sfida l’ideologia e la struttura dell’Is.
Sul fronte iracheno le cose non vanno meglio. La provincia dell’Anbar è quasi totalmente nelle mani delle milizie islamiste, la cui avanzata pare inarrestabile e minaccia la capitale Ramadi. Oggi le truppe irachene hanno dovuto battere la ritirata dalla citta di Hit, lasciandola sotto il controllo dell’Is, e in un attacco suicida è morto il capo della polizia dell’Anbar. Nena News