Qual è stato il peso dell’OLP e quali le ripercussioni ha generato la sua disgregazione nel corpo politico palestinese? In che modo ha tale frammentazione interessato la sfera culturale e il contributo di quest’ultima alla formazione di un’identità nazionale palestinese?
di Jamil Hilal – Al Shabaka*
Roma, 19 marzo 2016, Nena News – Il campo politico palestinese, dominato dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) fin dalla fine degli anni ’60, subì un processo di disgregazione a seguito dell’istituzione dell’Autorità Palestinese all’indomani degli accordi di Oslo. Qual fu il peso dell’OLP e quali ripercussioni ha generato la sua disgregazione nel popolo palestinese? In che modo ha influito sulla sfera culturale e sul contributo di quest’ultima alla formazione di un’identità nazionale palestinese?
A tali domande proveremo a rispondere nell’articolo che segue.
L’influenza dell’OLP sulla politica palestinese ebbe inizio dopo la battaglia di Al-Karameh, nel 1968, che rese possibile lo stabilirsi di una relazione centralizzata con le comunità palestinesi nella Palestina storica, in Giordania, in Siria, in Libano, nel Golfo, in Europa e nelle Americhe.
Per lo più queste comunità accolsero l’OLP come unico rappresentante legittimo malgrado subisse influenze dall’estero, malgrado la profonda dipendenza da aiuti stranieri, le controverse relazioni con il paesi di residenza e degli alti e bassi dei suoi rapporti regionali e internazionali. Come risultato, le peculiari condizioni e le caratteristiche di ogni comunità furono trascurate, così come furono ignorate le rispettive responsabilità nazionali, sociali e organizzative.
Dalla sua posizione dominante, l’OLP fu anche in grado di consolidare la pratica di politiche elitarie, pratica comune nel mondo arabo e a livello internazionale, ma che sarebbe stato meglio non attecchisse tra il popolo palestinese data la sua dispersione territoriale e la sua lotta di liberazione.
Il fatto che l’OLP fosse emersa e funzionasse in un contesto regionale e internazionale poco amico della democrazia sia in teoria che in pratica, contribuì a questa evoluzione. La regione araba era dominata da regimi con ideologie nazionaliste e totalitarie e da monarchie ed emirati teocratici e autoritari; la democrazia era vista come un concetto alieno, proprio del colonialismo occidentale. Allo stesso modo, l’OLP e le sue fazioni strinsero alleanze con i paesi socialisti e del terzo mondo, pochi dei quali avevano potuto godere di esperienze democratiche.
Le istituzioni dell’OLP fondate sulla rendita e la dipendenza dell’Organizzazione da aiuti provenienti dai paesi arabi non democratici e da paesi socialisti non fecero che rinforzare un approccio elitario e non democratico alla politica.
Una terza caratteristica dell’egemonia dell’OLP fu che le sue fazioni avevano subito un processo di militarizzazione precoce in parte dovuto agli scontri armati tra l’Organizzazione e i regimi arabi che la ospitavano, in parte all’essere costantemente presa di mira da Israele.
Questa militarizzazione formale, contrapposta alla guerra di guerriglia, servì a giustificare il formarsi di una relazione estremamente centralizzata tra leadership politica e membri dell’élite.
Tra gli anni ’70 e gli anni ’90, in seguito ai cambiamenti dello scenario regionale e internazionale, le fazioni e le istituzioni dell’OLP subirono una serie di durissimi colpi: l’espulsione dalla Giordania seguita agli scontri armati del 1970-71, la guerra civile divampata in Libano nel 1975,l’invasione israeliana del paese nel 1982, l’esodo dell’OLP dal Libano a seguito dei massacri di Sabra e Shatila, la guerra contro i campi palestinesi tra il 1985 e il 1986.
La prima Intifada (insurrezione popolare) contro Israele in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza alla fine del 1987 fu anche il momento in cui l’Islam invase il campo politico palestinese (1988). Il collasso dell’Unione Sovietica alla fine del 1989, la prima guerra del Golfo un anno più tardi e il conseguente isolamento politico e finanziario dell’OLP erosero infine sia le sue alleanze che le sue fonti di sostentamento.
Le conseguenze della disgregazione.
Durante la Prima Intifada, l’élite politica palestinese non afferrò l’importanza di riorganizzare il movimento nazionale e di ricostruire i rapporti tra la leadership centralizzata e le diverse comunità palestinesi. Inoltre, allorché l’Islam politico entrò in scena come emanazione della Fratellanza Musulmana, l’OLP non riuscì a neutralizzalo e non integrò Hamas nel processo politico nazionale. Nel contempo l’organizzazione islamista non fu in grado di ridefinire la propria identità sulla base di un’agenda nazionale. Di conseguenza il movimento politico palestinese che prima era definito movimento nazionale o rivoluzione, incominciò a venire chiamato ‘il movimento nazionale e islamico’.
Sicuramente la prima intifada spinse la direzione politica a centralizzare ulteriormente il processo decisionale: gli accordi di Oslo furono firmati senza che le forze politiche e sociali interne ed esterne alla Palestina fossero consultate.
Oslo fornì all’OLP la razionalizzazione politica, organizzativa ed ideologica necessaria ad emarginare i rappresentanti delle istituzioni nazionali palestinesi che già c’erano, in base al ragionamento che si stava così costituendo il nucleo di uno stato palestinese. L’Autorità Palestinese fu esclusa da ogni rapporto con i Palestinesi in Israele e, ben presto, perse interesse alla causa dei Palestinesi di Giordania. L’atteggiamento nei loro confronti, come del resto nei confronti dei Palestinesi in Libano, in Siria, nei paesi del Golfo, in Europa e in America, fu drasticamente ridotto a formalità burocratiche tramite le ambasciate e gli uffici di rappresentanza nei rispettivi paesi.
Quando l’istituzione dell’Autorità Palestinese (PA) in qualità di autorità limitata di auto-governo su parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, mancò di dare come risultato uno Stato di Palestina, le élite politiche furono private di un centro in un potenziale stato sovrano e ciò accelerò la sfaldamento del movimento nazionale. La vittoria di Hamas alle elezioni legislative del 2006 e il suo controllo totale sulla Striscia di Gaza a partire dal 2007 contribuirono infine all’attuale spaccatura dell’autorità di autogoverno in due autorità, una in Cisgiordania e l’altra a Gaza. Entrambe rimasero sotto l’occupazione e il controllo di uno stato coloniale che continua ad annettere territori e a deportare cittadini palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde.
La disgregazione del campo politico nazionale ebbe diverse ripercussioni. Le istituzioni di rappresentanza nazionali svanirono e le élite politiche locali divennero dominanti. I leader fondavano la loro legittimazione sui ruoli partitici ed organizzativi ricoperti in passato, e sui loro rapporti diplomatici con gli altri paesi della regione e con le istituzioni internazionali. Sia a livello locale che a livello internazionale il discorso prevalente riduceva la Palestina ai territori occupati del 1967 e i Palestinesi a coloro che vivevano sotto occupazione israeliana, escludendo così i rifugiati, gli esiliati e i cittadini palestinesi di Israele.
In Cisgiordania e nella Striscia di Gaza l’apparato di sicurezza crebbe esponenzialmente, sia per dimensione che quanto ai fondi destinati al suo mantenimento. La dipendenza dagli aiuti stranieri e le rimesse dall’estero accrebbero la natura “parassitaria” delle autorità in entrambe le aree e l’influenza del capitale privato sulle loro economie.
Ci furono anche significative trasformazioni della struttura sociale in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Tra queste l’emergere di una classe media relativamente ampia che fu impiegata nelle istituzioni dell’Autorità Palestinese in aree quali la formazione, la sanità, la sicurezza, la finanza e l’amministrazione, come pure nel nuovo settore bancario e nelle numerose ONG. Nel frattempo, la classe operaia andava ridimensionandosi, le diseguaglianze tra i vari strati sociali si approfondivano mentre la disoccupazione rimaneva elevata, in particolare tra i giovani e i neolaureati. La mentalità impiegatizia prese piede scalzando quella propria dei combattenti per la libertà. Anche se Fatah e Hamas si definiscono movimenti di liberazione, in realta’ si sono trasformati in strutture burocratiche e gerarchiche, prevalentemente interessate alla propria sopravvivenza.
Le élite politiche ed economiche non si sono dimostrate timide nell’ostentare la propria ricchezza e i propri privilegi a dispetto dell’ininterrotta e repressiva occupazione coloniale. La classi medie della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sono perfettamente consapevoli di come i propri standard e stili di vita dipendano dall’esistenza delle due autorità. Ciò malgrado la maggior parte della popolazione resta soggetta all’oppressione e all’umiliazione da parte dell’esercito israeliano e dei coloni armati e soffre non solo per la mancanza di condizioni di vita decenti e di un futuro lavorativo, ma anche per l’assenza di qualsiasi prospettiva di soluzione nazionale. L’assedio draconiano imposto da Egitto e Israele su Gaza è più ferreo che mai, accompagnato dalle guerre distruttive volute da Israele, mentre la pulizia etnica perpetrata ai danni dei Palestinesi di Gerusalemme continua inesorabile tra sfratti, ritiro dei permessi di residenza e un’ampia serie di pratiche analoghe.
Tali condizioni creano i presupposti per una situazione esplosiva nei territori occupati del 1967. Tuttavia, poichè l’OLP, i partiti politici e una buona parte delle organizzazioni della società civile non si sono mobilitati contro l’occupazione, o non hanno potuto farlo, gli scontri con l’esercito israeliano e i coloni nell’ondata di rabbia che ha avuto luogo dallo scorso ottobre sono rimasti limitati per lo piu’ a dimensioni individuali e locali poiché mancavano di una visione unitaria e di una leadership nazionale.
La disintegrazione del campo politico palestinese ha inoltre condotto ad una crescente oppressione e discriminazione delle comunità palestinesi in altri luoghi della Palestina storica e della diaspora. I cittadini palestinesi che si trovano oggi in quella parte di Palestina che diventò Israele nel 1948 devono far fronte a una gamma sempre piu’ ampia di leggi discriminatorie. I rifugiati palestinesi in e dalla Siria, Libano e Giordania, così come altrove, sono vittime di discriminazioni e abusi. Nel complesso, lo status della causa palestinese ha subito un’involuzione tanto nel mondo arabo quanto a livello internazionale, situazione certamente esacerbata dalle guerre interne ed esterne in molti paesi arabi.
Eppure la cultura prospera e continua ad alimentare l’identità nazionale
Oggi, il popolo palestinese non ha né uno stato sovrano né un movimento di liberazione efficiente. Tuttavia, c’è una forza straordinaria nell’identità nazionale palestinese in gran parte dovuta al ruolo esercitato dalla sfera culturale nel mantenerne e arricchirne la narrazione. Nell’alimentare l’identità e il patriottismo palestinese, la cultura gioca un ruolo di antica data.
Dopo la creazione di Israele nel 1948 e dopo la sconfitta dell’élite politica e del movimento nazionale del tempo, la minoranza palestinese in Israele diede sostentamento alla sua identità nazionale attraverso una fioritura culturale straordinaria – poesia, teatro, musica e film.
Lo scrittore e giornalista palestinese Ghassan Kanafani [1]espresse tutto ciò nel suo straordinario libro sulla letteratura della resistenza (al-Adab al-Mukawim fi Filistin al-Muhtala 1948-1966) pubblicato a Beirut nel 1968.
Tra le altre figure chiave ci furono il poeta Mahmoud Darwish[2]e Samih Al Qasim[3], il poeta sindaco di Nazareth, Tawfiq Zayyad [4]e lo scrittore Emile Habibi [5]sia con le sue opere quali The Pessoptimist, che con Al-Ittihad, il giornale comunista da lui co-fondato.
Negli anni ’50 e ’60 – quando gli Israeliani tenevano i cittadini palestinesi sotto controllo militare – letteratura, cultura e arte servirono a rinforzare e proteggere la cultura araba assieme all’identità nazionale palestinese e alla sua narrazione. Queste opere erano lette in tutto il mondo arabo e non solo, e permisero ai rifugiati palestinesi in esilio di sostenere la propria identità con continui legami con la cultura e l’identità della loro terra.
I ‘Palestinesi del 1948’, come vengono spesso definiti nel discorso palestinese, giocarono un ruolo fondamentale nel chiarire agli altri Palestinesi e agli Arabi come l’ideologia sionista influenzi le politiche israeliane e quali siano i meccanismi del controllo repressivo. Molti degli studiosi e intellettuali palestinesi del 1948 lavorarono nei centri di ricerca arabi e palestinesi a Beirut, Damasco e altrove; e da lì contribuirono a favorire tale comprensione.
Da allora, e specialmente in tempi di crisi politica, la sfera culturale ha offerto ai Palestinesi, soprattutto in momenti di crisi, più possibilità di quanto abbia fatto la sfera politica, e ha permesso loro di unirsi in attività che trascendono i limiti geopolitici, e di dar vita a varie forme di espressione culturale e di produzione intellettuale. In Cisgiordania, a Gaza e altrove, letteratura, cinematografia, musica, arte continuano ad essere prodotte, e a ritmo crescente, da scrittori, registi e artisti noti a livello internazionale e da giovani emergenti. Tutta questa produzione viene comunicata in numerosissimi modi – inclusi i social media – e rafforza i legami intra-palestinesi e intra-arabi, così come le interazioni transnazionali.
La vitalità del patriottismo palestinese è radicata nella narrazione storica e attinge alle esperienze quotidiane delle comunità che fronteggiano espropri, occupazione, discriminazione, espulsione e guerra.
È forse questa vitalità che spinge i giovani palestinesi, in prevalenza nati all’indomani degli accordi di Oslo del 1993, ad affrontare i soldati israeliani e i coloni in ogni angolo della Palestina storica. La stessa vitalità spiega anche la partecipazione di immense folle ai funerali dei giovani palestinesi uccisi e sostiene le raccolte di fondi per la ricostruzione delle case demolite dai bulldozer israeliani per punire collettivamente le famiglie dei giovani caduti.
Tuttavia, sottolineare il significato e la vitalità della sfera culturale non compensa l’assenza di un efficace movimento politico costruito su basi solide e democratiche. Dobbiamo imparare dai fallimenti delle istituzioni originali del movimento e andare oltre, invece di sprecare energie, tempo e risorse per ripristinare un campo politico disintegrato e defunto. Dobbiamo anche superare concetti e pratiche, come l’alto grado di centralizzazione, che si sono dimostrati fallimentari. La politica deve soprattutto preoccuparsi della gente, della base.
Dobbiamo salvaguardare la nostra cultura nazionale da concetti e metodi che rendono schiava la mente, paralizzano il pensiero e la libera volontà, promuovono l’intolleranza, santificano l’ignoranza e adorano i miti. Al contrario, dovremmo promuovere i valori della libertà, della giustizia e dell’uguaglianza.
Abbiamo bisogno di concepire l’azione politica in modo del tutto nuovo.
Quel modo che si intuisce dal linguaggio che si va formando tra gruppi giovanili e nelle relazioni tra le forze politiche palestinesi all’interno della linea verde. Questa nuova concezione riflette la consapevolezza profonda dell’impossibilità di coesistere con un’ideologia razzista come il sionismo e con un regime coloniale che criminalizza la narrazione storica dei palestinesi.
Al centro di questa nuova consapevolezza politica sta la necessità di coinvolgere le comunità palestinesi in un processo di discussione, progettazione e adozione di nuove politiche inclusive. Questo è sia loro diritto che loro dovere. È altrettanto importante riconoscere il diritto di ogni comunità a determinare la propria strategia nell’affrontare i problemi specifici a cui deve far fronte mentre partecipa all’autodeterminazione dell’intero popolo palestinese.
Costruire un nuovo movimento politico non sarà facile a causa dei crescenti interessi faziosi e della paura di valori e pratiche democratiche.
E’ quindi necessario incoraggiare le iniziative delle comunità di base che mirano a formare gruppi dirigenti locali, con la maggiore partecipazione possibile di individui radicati nelle comunità e nelle istituzioni locali, seguendo l’esempio promettente dei Palestinesi del 1948, che si organizzarono in Alti Comitati per i cittadini arabi d’Israele per difendere i propri diritti e interessi, e l’esempio dei Palestinesi della Striscia e della Cisgiordania durante la Prima Intifada.
Il Boycott, Divestment and Sanctions Movement (BDS) è un altro riuscito esempio di questo nuovo tipo di consapevolezza e organizzazione politica. Mette insieme fazioni politiche diverse, sindacati e organizzazioni della società civile con una strategia e una visione unitaria.
Alcuni potrebbero vedere questa discussione come utopica e idealista, ma abbiamo un disperato bisogno d’idealismo nel caos e nella faziosità distruttiva che ci circondano.
Abbiamo una ricca storia di attivismo politico e creatività culturale a cui attingere.
Jamil Hilal è un sociologo e scrittore palestinese indipendente. Ha pubblicato molti libri e numerosi articoli sulla società palestinese, il conflitto Arabo-Israeliano e altri temi relativi al Medio Oriente. Ha svolto nel passato e tuttora svolge attività di ricerca presso numerosi istituti di ricerca palestinesi. Le sue opere più recenti riguardano la povertà, i partiti politici palestinesi, e il sistema politico dopo Oslo. Ha curato il libro Palestina, Quale Futuro? La Fine della Soluzione dei Due Stati. Jaka Book, 2007 e, con Ilan Pappe, ha curato Across The Wall (I.B. Tauris, 2010)
[1]Acri, 1936 – Beirut, 1972
[2]al Birwa1941-Houston 2008
[3]Transgiordania 1939 – Rameh, Israele 2014
[4]Galilea 1929 – 1994
[5]Haifa 1922 – 1996