«Non tutti riescono a presentare da soli la domanda per la cassa integrazione o per gli aiuti previsti dal governo». X. è curdo, ha un ristorante e da inizio marzo ha chiuso le saracinesche: «Siamo tutti in difficoltà. I locali sono chiusi, non puoi pagare i dipendenti, le tasse, l’affitto – ci spiega – Né mandare soldi a casa. Tanti migranti vivono in 6 o 7 in un appartamento pur di spedire 200 euro al mese al loro paese. Ora è impossibile. La vera preoccupazione oggi è sopravvivere».
«Tanti lavorano in agricoltura e nella ristorazione, come lavapiatti e camerieri, o negli hotel nelle pulizie. Tutto fermo». Lavoro in nero, sfruttamento («Spesso il primo sfruttatore di migranti è un altro migrante»), contratti a chiamata sospesi, realtà che rendono impossibile l’accesso ai sussidi governativi, come il bonus famiglia o i buoni pasto, o alla cassa integrazione. Chi potrebbe ha difficoltà a districarsi tra i documenti in burocratese. E si mette in fila davanti ai Caf.
Al di là dell’oceano, a Des Moines, Iowa, cambia poco. Anche qui per un migrante le priorità sono stravolte: prima la sopravvivenza, poi la famiglia.
Y. lavora in un albergo, ha un contratto ma non uno stipendio fisso. Lavora a ore. E con il lockdown il monte ore da metà marzo è zero: «Ho fatto richiesta per il sussidio di disoccupazione: 450 dollari a settimana, 1.800 al mese. Ma 1.300 se ne vanno di affitto».
«Si parla di un sostegno per quattro mesi – ci dice – poi chissà. Dovesse andare male, tornerei in Palestina. Almeno lì ho una casa, una rete familiare. Soldi a casa? Non bastano nemmeno per noi. Sarà un Ramadan triste».
Il mese sacro dell’Islam è appena iniziato. Ovunque, dall’Indonesia all’Egitto, dalla Turchia al Sudan, per due miliardi di musulmani sarà un Ramadan spento. Le misure di contenimento dell’epidemia di Covid-19 hanno chiuso le moschee e sospeso la preghiera collettiva, ridotto i movimenti e gli affollamenti nei mercati per comprare i vestiti buoni per la festa e il cibo con cui rompere il digiuno al tramonto.
L’Iftar si consuma in famiglia, senza parenti e amici, senza le lunghe veglie notturne che riempiono le strade e i quartieri di luci e musica, senza la condivisione del pasto con i poveri e le lanterne che spezzano la notte. Un Ramadan solitario ma soprattutto più povero. Economie che si reggono per buona parte sul lavoro informale soffrono più di altre. E le rimesse da fuori evaporano.
I dati li dà la Banca Mondiale: in tutto il mondo il lockdown e la conseguente perdita di posti di lavoro a contratto o a nero ha provocato una riduzione del 20% delle rimesse verso i paesi di origine, «il calo più duro della storia recente».
Un dramma doppio: per chi non riceve più e per chi non invia, dopo anni di sacrifici in terra straniera. Si stima che nel 2019 il valore totale delle rimesse verso i paesi di origine sia stato pari a 573 miliardi di dollari. Ogni migrante riesce a mandare tra i 100 e i 200 dollari al mese. Fatti i calcoli si capisce quante famiglie siano travolte: centinaia di milioni di persone che perdono accesso al cibo, alla sanità, all’educazione.
La Banca Mondiale stima un calo del 23,1% verso l’Africa sub sahariana, del 22% per l’Asia del Sud, del 19,6% per Medio Oriente e Nord Africa, del 19,3% verso America latina e Caraibi.
Perché la perdita del lavoro non colpisce tutti allo stesso modo: i migranti senza contratto o cittadinanza non sono titolari, in molte parti del mondo, degli stessi diritti dei cittadini in termini di sussidi di disoccupazione o aiuti ai più poveri. E spesso sono i più vulnerabili al virus, costretti in appartamenti affollati ma i soli abbastanza economici da permettere di risparmiare qualcosa da mandare a casa.
Gli effetti non sono solo individuali (con un 50% delle entrate familiari cancellati dal mancato arrivo delle rimesse, sottolinea l’Oim). Sono collettivi. Un paio di esempi: in Libano il 12,5% del Pil è dovuto alle rimesse, 7,3 miliardi di dollari l’anno; in Egitto l’8,8, oltre 25 miliardi. Un altro feroce impoverimento delle classi basse del sud del mondo è la scintilla possibile di conflitti sociali già lampanti. La fame fa più paura del Covid-19.