Si torna a parlare di una sospensione dei combattimenti per il Ramadan. Inviato Onu ieri a Sana’a. Il conflitto sta provocando un “ritorno al Medioevo”: il 90 per cento della popolazione ha urgente bisogno di aiuti
di Sonia Grieco
Roma, 6 luglio 2015, Nena News – Manifestanti pro-Houthi in piazza e raid sauditi su Sana’a. È stato accolto così ieri l’inviato speciale delle Nazioni Unite Ismail Ould Cheikh Ahmed, in Yemen per negoziare una tregua umanitaria invocata più volte negli ultimi mesi, ma sempre sfumata per l’intransigenza delle parti. Mentre i caccia della coalizione di Paesi arabi guidata dall’Arabia Saudita non hanno mai smesso di martellare il territorio yemenita: decine di morti.
Oggi il governo in esilio a Riyadh del presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi ha detto di aspettarsi un accordo a breve, ma non è la prima volta che si aprono spiragli (la scorsa settimana è stata la Russia a parlare di un’intesa vicina) che poi si richiudono lasciando il Paese in balia di una catastrofe umanitaria, che la scorsa settimana ha spinto l’Onu a dichiarare lo stato di emergenza umanitaria in Yemen.
Il conflitto sta provocando un “ritorno al Medioevo”, secondo gli analisti: il 90 per cento della popolazione ha urgente bisogno di aiuti -mancano acqua, elettricità, medicine, carburante-, le infrastrutture sono distrutte o inagibili a causa dei bombardamenti e quasi tremila persone sono morte. Il blocco marittimo e aereo imposto da Riyadh ha fatto precipitare la situazione, aggravata dalla farraginosa burocrazia imposta dalla coalizione che rende il passaggio dei pochi aiuti consentiti complicato e rallentato. Probabilmente per spingere una popolazione allo stremo a schierarsi con Hadi e con la coalizione.
Per non parlare della destabilizzazione di un Paese chiave in Medio Oriente, in cui si stanno confrontando due potenze regionali: l’Arabia Saudita, sunnita, che sostiene e foraggia le truppe di Hadi, bombardando il Paese, e l’Iran sciita legato agli Houthi, un clan dello Yemen settentrionale il cui nome, preso da quello del loro leader Abdel Malek al-Houthi, è usato per identificare il movimento di combattenti Ansar Allah. Hanno un legame con la Repubblica islamica dettato dagli interessi del momento, non certo dalla comunanza della fede sciita, né da un’alleanza strutturata e permanente. Gli Houthi hanno iniziato la loro avanzata dal Nord, loro roccaforte, per chiedere maggiore partecipazione politica in una situazione in cui si sentono marginalizzati dal potere centrale e penalizzati da povertà, mancanza di risorse e disoccupazione. D’altronde anche quella tra Riyadh e Hadi è un’alleanza di convenienza, dettata dal timore dell’ingerenza iraniana nella zona di influenza.
Infatti, non è certo riducibile a un conflitto religioso, quello che da marzo sta scuotendo lo Yemen. In quello che Riyadh considera il suo giardino di casa (ma anche l’anello debole del suo bacino di influenza), il regno wahabita sta mostrando i muscoli per frenare le mire espansionistiche di Teheran alle prese con un negoziato sul proprio programma nucleare. Se ci sarà l’intesa, storica, con i Paesi dei cosiddetti 5+1 (Usa, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania), la Repubblica islamica uscirebbe da un lungo isolamento e la sua influenza regionale aumenterebbe. Cosa che non preoccupa soltanto il regno dei Saud, ma anche Tel Aviv.
I raid finora non hanno sortito gli effetti sperati, considerato che gli Houthi controllano la maggior parte del Paese, mentre il conflitto si è trasformato in una ghiotta opportunità per al Qaeda nella Penisola arabica, la filiale più forte e temuta dell’organizzazione fondata da Bin Laden, di guadagnare terreno. E anche l’Isis ne ha approfittato seminando terrore e insicurezza con attentati kamikaze che hanno fatto strage.
La popolazione civile vive in un clima di totale insicurezza, stretta tra i combattimenti tra Houthi, coadiuvati dai fedeli dell’ex presidente Saleh (di cui Hadi è stato vice fino alla caduta nel 2012), deposto dalla cosiddetta primavera yemenita, e gli uomini di Hadi. Dal cielo cadono le bombe saudite, ma anche da quelle dei droni Usa che sono tornati alla tattica dei cosiddetti “signature strike”, cioè si fa fuoco in base a modelli comportamentali (l’obiettivo si comporta come un terrorista) e non in base all’identificazione certa del bersaglio. E poi ci sono qaedisti e jihadisti sul territorio.
La tregua umanitaria è indispensabile per fermare una catastrofe ignorata dai media. Dovrebbe durare fino alla fine del Ramadan e consentire il soccorso della popolazione, l’ingresso di cibo e farmaci. Un sospiro di sollievo per gli yemeniti, ma non certo la fine del conflitto. Per arrivare a quello la strada appare ancora lunga. Hadi e i suoi sostenitori pretendono il rispetto delle condizioni della risoluzione 2216 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (aprile), presentata dalla Giordania e scritta da Paesi della coalizione anti-Houthi: ritiro “immediato e incondizionato” degli Houthi dalla capitale Sana’a, occupata lo scorso settembre, e dagli altri territori sotto il loro controllo, disarmo, rilascio dei prigionieri politici e dei bambini soldato (da sempre una piaga in Yemen). In sostanza una resa totale che sarebbe una condanna a morte per gli Houthi. Nena News
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