È la vicenda paradossale dell’ex calciatore dell’Inter, Caner Erkin, che a ottobre avrebbe insultato un arbitro dopo essere stato ammonito. Ma sono tante le storie di repressione che hanno come protagonisti calciatori e club locali: il football turco è sempre più luogo di propaganda e controllo per Erdogan
di Roberto Prinzi
Roma, 14 marzo 2018, Nena News – Nel calcio italiano è stato poco più che una meteora: acquistato dall’Inter nel giugno del 2016 da uno dei tre storici club di Istanbul, il Fenerbahce, il laterale Caner Erkin è stato immediatamente ceduto in prestito al Besiktas. Una scelta giusta quella di Erkin: con la squadra bianconera di Istanbul si sarebbe laureato lo scorso anno campione di Turchia ricoprendo un ruolo da protagonista. Una storia di calcio finita a lieto fine, sembrerebbe. Ma non è così. O almeno non lo è più da ieri, da quando cioè il laterale ha scoperto che rischia due anni di prigione per aver protestato dopo aver preso un’ammonizione. I fatti risalgono allo scorso ottobre quando il nazionale turco ha inseguito e insultato l’arbitro Mete Kalkavan dopo aver ricevuto un cartellino giallo.
Un errore madornale nella Turchia del presidente Erdogan: primo perché i direttori di gara sono considerati “funzionari statali”. Secondo perché la sua protesta (Erkin nega di aver insultato il direttore di gara) fu plateale e fu colta per intero dalle telecamere destando ancora più clamore mediatico. Terzo perché la partita era contro il Baseksehir il cui proprietario è il ricco affarista Goksel Gumusdag, nipote acquisito del presidente Erdogan e, di fatto, la squadra del partito del presidente (l’Akp).
Secondo l’Agenzia filogovernativa turca Anodolu, la procura ha accusato Erkin di aver insultato “un pubblico ufficiale che svolgeva il suo lavoro” e l’ha convocato in tribunale nei prossimi giorni. Al calciatore era stata data inizialmente una squalifica di sei gare per la protesta contro Kalkavan. Una pena a dir poco severa per un gesto, il suo, che è molto comune sui campi di gioco turchi e non. Eppure che ora sembra essere una carezza rispetto a quello che il laterale 30enne potrebbe passare. La notizia ha scatenato un putiferio in rete con la gran parte dei suoi tifosi, i bianconeri del Besiktas, convinti che dietro a questa possibile condanna a dir poco paradossale ci sia lo stesso presidente turco Erdogan.
Non sarebbe del resto la prima condanna contro un calciatore che ha mostrato, in qualche modo, “insubordinazione” allo stato e al suo padre-padrone. Lo sa bene Hakan Sukur, primatista di reti con la nazionale turca e celebre bandiera del Galatasaray in cui ha militato per 13 anni e con cui ha vinto, oltre a svariati titoli nazionali, anche una indimenticabile Coppa Uefa nel 2000. Un bomber di razza (oltre 200 gol con i giallorossi di Istanbul) che ha vissuto alcune esperienze non fortunate professionalmente in Italia con Torino, Inter e Parma.
La vicenda Sukur racconta meglio di tante parole la Turchia di Erdogan. Soprattutto quella post-golpe, degli arresti di massa, del clima di caccia alle streghe e di sospetto verso ogni forma di opposizione. Lasciato il calcio per motivi di età, lo sportivo si candida in politica con l’Akp riuscendo ad essere eletto parlamentare. Tutto sembra procedere per il meglio per l’ex calciatore finché però non diventano insanabili nel 2013 le fratture tra il presidente e il suo alleato Fethullah Gulen. Il bomber si schiera con quest’ultimo e lascia prima il partito e poi il Paese (va negli Stati Uniti) dopo il fallito golpe del luglio del 2016 orchestrato, secondo Ankara, proprio da Gulen. Il “tradimento” di Sukur non resta impunito: la sua leggenda sportiva viene di fatto riletta, se non cancellata, il suo mito abbandonato dalla Turchia di Erdogan. A un mese dal tentato colpo di stato, viene poi spiccato un mandato di arresto contro di lui perché accusato di appartenere ad un gruppo terroristico. Sukur nega le accuse, ma non rinnega la sua vicinanza a Gulen pur sapendo bene che la sua presa di posizione ha un prezzo caro. E così è stato: i beni di famiglia gli vengono immediatamente confiscati e suo padre viene arrestato (morirà in estate di cancro senza che il figlio lo abbia potuto visitare per paura di essere incarcerato a vita).
Destino peggiore l’ha vissuto nel gennaio 2016 l’Amedspor, squadra di terza serie di Diyarbakir, la “capitale” del Kurdistan turco. La vittoria con il Bursaspor, valevole per il passaggio ai quarti di Coppa di Turchia, fu infatti “festeggiata” con l’irruzione della polizia nella sede della società e il sequestro di computer e documenti. Il “reato”? Un tweet – partito non dall’account del club – in cui l’importante successo sportivo veniva dedicato a tutto il popolo curdo. Le perquisizioni della polizia si sarebbero ripetute in seguito anche dopo un match contro la squadra dell’Akp, il Basaksehir, durante il quale i tifosi dell’Amedspor intonarono cori di protesta contro le mattanze dei curdi nel sud-est del Paese compiute dall’esercito turco.
Il sostegno agli oppositori curdi è inaccettabile per il Sultano. Si chieda a Deniz Naki, attaccante turco-tedesco che nel 2013 viene acquistato dal Gencerbirligi. Un rapporto breve quello con il club di Ankara terminato dopo meno di un anno a causa di un’aggressione razzista subita dal calciatore per le strade della capitale. Naki lascia così il club e decide di andare all’Amedspor. Ma anche qui i suoi problemi non finiscono: lo scorso aprile il calciatore, che si trova ora in Germania, è stato infatti condannato a 18 mesi di carcere (pena poi sospesa) per “propaganda terroristica” a favore del partito curdo del Pkk. Lo scorso 7 gennaio poi Naki è attaccato mentre è in autostrada al confine tra Germania e Belgio: la sua auto è colpita da almeno due proiettili, ma per fortuna il giovane resta illeso. Gesti chiaramente intimidatori, ma che non lo hanno fermato: il 30 gennaio, dopo una sua protesta contro l’operazione turca “Ramoscello d’Ulivo” nel cantone curdo del Rojava di Afrin (nord Siria), il calciatore è stato multato per 273mila lire turche e squalificato prime per tre anni e mezzo eppoi a vita.
Ma non tutti sono Naki. Anzi Naki è un caso unico e raro. Basta vedere cosa accade nel “club di Erdogan”, quel Basaksehir che fino al 2012 lottava per non retrocedere in serie C e oggi lotta per il titolo della Seria A turca, la Super Lig. Un successo che non può essere solo attribuito a meriti sportivi: il Basaksehir, del resto, non è solo una squadra di calcio, ma è strumento per diffondere la visione politica del leader maximo turco.
Lo abbiamo scoperto recentemente anche noi in Italia dopo la recente doppietta contro il Benevento del talentuoso laterale destro Cengiz Under. Under, acquistato quest’anno dalla Roma dal Basaksehir, ha celebrato infatti la sua seconda marcatura facendo un saluto militare. Non pago, poi, ha accompagnato la sua esultanza qualche ora dopo con un tweet in cui ha manifestato vicinanza ai tre soldati turchi uccisi ad Afrin durante quella stessa offensiva militare condannata dal suo collega Naki. Ma l’esultanza di Under allo stadio Olimpico di Roma non è stata per nulla originale: è una costante nelle sfide del Besaksehir, sia dei suoi calciatori che dei suoi tifosi di casa. In particolar modo quando gli avversari sono squadre curde. Fu infatti proprio con un saluto militare che l’ex Barcellona Arda Turan, il calciatore turco più forte e conosciuto in attività, celebrò il suo primo gol con la squadra dell’Akp.
Del resto i regimi dittatoriali hanno bisogno anche di una palla che rotola su un rettangolo verde per legittimarsi, per diffondere il loro mito e lanciare moniti ai “nemici”. Soprattutto in tempi di guerra come questi in cui la Turchia è pronta alla resa dei conti contro i curdi del Rojava. La possibile punizione di Erkin è un avviso implicito a non alzare troppo la voce, un chiaro monito a non protestare contro l’autorità, qualunque essa sia. E, va da sé contro il vero arbitro del destino dei turchi: il presidente Sultano Erdogan. Nena News
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir