Terzo giorno di operazione contro la regione curda di Rojava: i miliziani dell’Els e i carri armati di Ankara entrano nel territorio del cantone curdo. Damasco e Teheran protestano ma Erdogan promette di eliminare le Ypg e creare una zona cuscinetto di 30 km in territorio siriano
della redazione
Roma, 22 gennaio 2018, Nena News – L’operazione militare contro Afrin, ribattezzata con l’assurdo nome di “Ramo d’ulivo”, conta già i suoi morti. A tre giorni dal lancio ufficiale prima di missili e ora di bombe dall’alto, le forze dell’esercito turco avanzano verso il cantone occidentale di Rojava. Gli stivali sul terreno sono quelli dei militari alla guida dei carri armati entrati nel territorio di Afrin e quelli di 5mila miliziani dell’Esercito Libero Siriano, opposizione considerata moderata e legittima dalla comunità internazionale fin dal 2011, assorbita dentro milizie jihadiste e islamiste e oggi asservita al padrone turco: l’operazione terrestre contro i curdi di Rojava, resistenza costante ed efficace contro l’occupazione dell’Isis, non può certo ricadere dentro la seppur generica definizione di opposizione al governo di Damasco.
Nella giornata di ieri l’Els è riuscito ad occupare postazioni strategiche nella provincia di Afrin: quattro colline a Sheikh Hadid e Raju, ovest del cantone curdo, e due villaggi a nord. Una giornata di violenze: i jet turchi hanno lanciato diversi bombardamenti su Afrin, dopo i 100 obiettivi colpiti sabato, uccidendo almeno otto civili – tra cui un bambino – in una fattoria nel villaggio di Jalbara. Sabato le vittime erano state dieci, di cui sette civili. In tutto sarebbero oltre 150 i target colpiti, compresi – denunciano da Rojava – campi per sfollati e zone residenziali.
Le unità di difesa popolare, le Ypg e le Ypj, rispondono: ieri un missile sparato oltre il confine è caduto su una cittadina turca alla frontiera ha ucciso un rifugiato siriano e ha ferito 32 persone. I combattenti curdi hanno inoltre annunciato la distruzione di due carri armati turchi che tentavano l’ingresso nel villaggio di Dikmetas.
Ankara nega: “Come sempre i terroristi di Pkk e Ypg continuano a confondere il mondo con una propaganda senza senso e bugie senza alcuna base, definendo civili dei terroristi neutralizzati”, ha detto il ministro degli Esteri Cavusoglu, prima smentendo le vittime civili e poi affermando che i residenti vengono usati come scudi umani dagli 8-10mila combattenti curdi stimati dal governo turco. Ma sarebbero di più, tra le 10 e le 20mila unità, già preparate da tempo ad un possibile attacco e probabilmente pronte a difendersi con le armi che gli Stati Uniti, oggi in religioso silenzio, hanno fornito negli ultimi mesi, a riprova della vacuità delle alleanze sul campo siriano.
La Turchia non intende arretrare, forte del silenzio generale: al di là delle minacce del governo siriano (che aveva promesso di abbattere i jet turchi se avessero violato lo spazio aereo siriano e che ieri per bocca del presidente Assad ha definito l’operazione parte della politica turca di sostegno al terrorismo) e dell’intervento iraniano (ieri l’Iran ha chiesto ad Ankara di “cessare immediatamente l’azione per impedire un peggioramento della crisi”), non c’è attore internazionale presente in Siria che alzi un dito.
Il partito curdo-siriano Pyd accusa la Russia di aver dato, dietro le quinte, il via libera alla Turchia, ritirando i suoi uomini e gli osservatori dalla zona. Di certo si sa che i rappresentanti diplomatici di Washington, Teheran e Mosca sono stati convocati ad Ankara e fatti partecipe della missione; una lettera con i dettagli dell’operazione è stata invece inviata a Damasco. Il tutto condito da un difficilmente accettabile richiamo al diritto internazionale, in particolare al diritto all’autodifesa, come se il territorio turco fosse oggetto di una qualche aggressione.
E allora il presidente Erdogan trova la spinta sufficiente per promettere la distruzione delle Ypg e del progetto del confederalismo democratico: ieri ha dichiarato che il suo esercito non si ritirerà fin quando la minaccia non sarà neutralizzata e paventa te,più brevi: entro il 3 febbraio. Parole che aprono, come ampiamente annunciato nei giorni scorsi, ad un ampliamento dell’operazione: dopo Afrin, la Turchia si sposterà verso est, verso la città di Manbij. E forse oltre: il premier Yildirim ha parlato ieri ad un incontro del partito di governo Akp dell’intenzione di creare una zona cuscinetto di 30 chilometri all’interno del territorio siriano.
La minaccia per la Turchia sta nell’esistenza stessa di un progetto politico lontanissimo dal suo regime, che fa dell’ideologia del Pkk la base politica al modello democratico confederale di Rojava. Di quale altra minaccia, altrimenti, starebbe parlando Erdogan? Le Ypg non hanno mai colpito o tentato di attaccare il suolo turco. Lo ha ribadito sabato il portavoce delle Ypg Nuri Mahmoud: “Non c’è mai stata alcuna minaccia verso la Turchia dai confini che stiamo difendendo. La nostra gente ha messo in campo pratiche di autogoverno che il governo turco non intende accettare”. Nena News