Ucciso nell’ottobre 1987, l’anniversario della sua morte spinge a una riflessione sui principi ideologici dietro la sua opera politica, ancora attuali nel continente: il non allineamento, la politica degli aiuti umanitari, il ruolo di donne e artisti
di Cecilia D’Abrosca
Roma, 15 gennaio 2018, Nena News – Thomas Sankara veniva ucciso trent’anni fa, all’apice della carriera politica e militare di presidente del Burkina Faso. È una delle figure centrali della storia contemporanea: leader internazionale e capo carismatico indiscusso. La politica Di Thomas Sankara è intrisa di filosofia e di principi etico-morali, che poggiano sull’osservazione della realtà africana e delle condizioni di vita dei burkinabé.
L’anniversario della sua morte spinge ad una riflessione sulla natura innovativa e pionieristica delle linee del suo programma, sui contenuti ancora attuali, sulle questioni oggi poco affrontate, sugli eventuali punti irrisolti.
Thomas Sankara raccoglie dati numerici, solleva dibattiti, denuncia e attua le sue proteste. La sua voce fa da eco a quella del popolo. Il ruolo istituzionale gli conferisce visibilità, dando lui l’opportunità di parlare al cospetto di un uditorio rilevante nello scacchiere mondiale. Tali premesse lo inducono, in occasione della 39esima Assemblea dell’Onu, svoltasi nel 1984 a New York, ad esprimersi su alcuni nodi tematici del suo programma politico:
- Il Terzo Mondo
- Il non allineamento di Africa, America Latina, Asia
- La politica dell’aiuto umanitario
- Il ruolo di artisti e intellettuali
- L’emancipazione delle donne burkinabé
Egli dichiara:
Nessuno sarà sorpreso di vederci associare l’ex Alto Volta – oggi Burkina Faso – con questo insieme così denigrato che viene chiamato Terzo mondo, una parola inventata dal resto del mondo al momento dell’indipendenza formale per assicurarsi meglio l’alienazione sulla nostra vita intellettuale, culturale, economica e politica. Noi vogliamo inserirci nel mondo senza giustificare comunque questo inganno della storia, né accettiamo lo status di “entroterra del sazio Occidente”. Affermiamo la nostra consapevolezza di appartenere a un insieme tricontinentale, ci riconosciamo come paese non allineato e siamo profondamente convinti che una solidarietà speciale unisca i tre continenti, Asia, America Latina ed Africa in una lotta contro gli stessi banditi politici e gli stessi sfruttatori economici.
Volendo problematizzare le affermazioni di Thomas Sankara, emerge una lucida analisi rivolta al concetto di Terzo Mondo, semanticamente concepito come una costruzione linguistico-sociale, operata dal resto del mondo allo scopo di legittimare e garantire una sorta di isolamento degli africani sul piano culturale, intellettuale ed economico-politico.
Cosa è cambiato da allora? Qual è il mutamento di significato ravvisabile nelle parole di Sankara? Cosa è accaduto, di fatto, per limitare o impedire queste forme di isolamento? In apparenza, poco o nulla: la denominazione “Terzo Mondo” permane, comprendendo, essa, i Paesi attraversati da povertà materiale e assenza o scarsezza di conoscenze, dunque di uno sviluppo scientifico e tecnologico. Thomas Sankara sembra anticipare la resistenza occidentale a voler eliminare una espressione che designa una parte del mondo che resta “in coda” – tenendo ben chiaro che, le parole e le espressioni sono il frutto di sistemi di pensiero.
Riguardo al secondo punto del programma, il Movimento dei paesi non allineati alle potenze mondiali, sopravvive. L’Africa, spiega Sankara, è parte di un insieme tricontinentale solidale che, parafrasando Josè Martin, “sente sulla guancia ogni schiaffo inflitto contro ciascun essere umano ovunque nel mondo” e che ritiene di dover voltare le spalle ai modelli che alcuni “ciarlatani” hanno cercato loro di vendere. Si evince dalle parole del Presidente, una posizione ferma, che presuppone una scelta di fondo: stabilire “da che parte stare”, verso chi mostrare solidarietà.
Sankara affronta con durezza le posizioni politiche del tempo, senza lasciare spazio al non detto, trattando il tema degli aiuti dall’estero:
Eravamo l’incredibile concentrato, l’essenza di tutte le tragedie che da sempre colpiscono i cosiddetti paesi in via di sviluppo. Lo testimonia in modo eloquente l’esempio dell’aiuto estero, tanto sbandierato e presentato, a torto, come la panacea. Pochi paesi sono stati inondati come il Burkina Faso da ogni immaginabile forma di aiuto. Teoricamente, si suppone che la cooperazione debba lavorare in favore del nostro sviluppo. Nel caso dell’Alto Volta, potevate cercare a lungo e invano una traccia di qualunque cosa si potesse chiamare sviluppo. Chi è al potere, per ingenuità o per egoismo di classe non ha potuto o voluto controllare questo afflusso dall’esterno, e orientarlo in modo da rispondere alle esigenze del nostro popolo. Analizzando una tabella pubblicata nel 1983 dal Club del Sahel, con notevole buon senso Jacques Giri concludeva nel suo libro “Il Sahel domani” che, per i suoi contenuti e i meccanismi che ne reggono il funzionamento, l’aiuto al Sahel era un aiuto alla mera sopravvivenza. Solo il 30%, sottolinea Giri, di questo aiuto permette al Sahel di vivere. Secondo Giri, il solo obiettivo dell’aiuto estero è continuare a sviluppare settori non produttivi, imporre pesi insopportabili ai nostri magri bilanci, disorganizzare le campagne, aumentare il deficit della nostra bilancia commerciale, accelerare il nostro indebitamento […]
La diagnosi era cupa ai nostri occhi. La causa della malattia era politica. Solo politica poteva dunque essere la cura. Naturalmente incoraggiamo l’aiuto che ci aiuta a superare la necessità di aiuti. Ma in generale, la politica dell’aiuto e dell’assistenza internazionale non ha prodotto altro che disorganizzazione e schiavitù permanente, e ci ha derubati del senso di responsabilità per il nostro territorio economico, politico e culturale.
Abbiamo scelto di rischiare nuove vie per giungere ad una maggiore felicità. Abbiamo scelto di applicare nuove tecniche e stiamo cercando forme organizzative più adatte alla nostra civiltà, respingendo duramente e definitivamente ogni forma di diktat esterno, al fine di creare le condizioni per una dignità pari al nostro valore.
L’attacco alla modalità degli aiuti e alla capacità di gestirne il flusso, da parte dell’amministrazione, sembra collegarsi al dibattito contemporaneo sulla efficacia o meno degli interventi umanitari in campo internazionale. Trova spazio, a questo punto, la citazione del testo di Mark Duffield, “Guerre postmoderne. L’aiuto umanitario come tecnica politica di controllo”, in cui, la tesi sostenuta, riguarda la reale capacità dell’intervento umanitario di contribuire, in modo definitivo e concreto, alla ri-costruzione dei paesi squarciati da crisi economiche e/o da conflitti decennali. Fino a che punto l’aiuto umanitario non andrebbe considerato la longa manus dei governi centrali – in molti casi, da essi finanziato? Fino a che punto, il Burkina Faso si è liberato dal diktat esterno dopo trent’anni dall’uccisione di Sankara?
Sankara mostra vicinanza e comprensione alla questione femminile, in questi termini:
Chi mi ascolta mi permetta di dire che parlo non solo in nome del mio Burkina Faso, tanto amato, ma anche di tutti coloro che soffrono in ogni angolo del mondo. Parlo in nome dei milioni di esseri umani che vivono nei ghetti perché hanno la pelle nera o perché sono di culture diverse, considerati poco più che animali. Soffro in nome degli Indiani d’America che sono stati massacrati, schiacciati, umiliati e confinati per secoli in riserve così che non potessero aspirare ad alcun diritto e la loro cultura non potesse arricchirsi con una benefica unione con le altre, inclusa quella dell’invasore. Parlo in nome di quanti hanno perso il lavoro, in un sistema che è strutturalmente ingiusto e congiunturalmente in crisi, ridotti a percepire della vita solo il riflesso di quella dei più abbienti.
Parlo in nome delle donne del mondo intero, che soffrono sotto un sistema maschilista che le sfrutta. Per quel che ci riguarda siano benvenuti tutti i suggerimenti, di qualunque parte del mondo, circa i modi per favorire il pieno sviluppo della donna burkinabé. In cambio, possiamo condividere con tutti gli altri paesi la nostra esperienza positiva realizzata con le donne ormai presenti ad ogni livello dell’apparato statale e in tutti gli aspetti della vita sociale burkinabé. Le donne in lotta proclamano all’unisono con noi che lo schiavo che non organizza la propria ribellione non merita compassione per la sua sorte. Questo schiavo è responsabile della sua sfortuna se nutre qualche illusione quando il padrone gli promette libertà. La libertà può essere conquistata solo con la lotta e noi chiamiamo tutte le nostre sorelle di tutte le razze a sollevarsi e a lottare per conquistare i loro diritti.
Ma l’attenzione è rivolta anche alle altre minoranze del mondo: ad esempio, agli Indiani D’America e ai neri che vivono nei ghetti. Vi è, da parte di Thomas Sankara, il riconoscimento di un sistema maschilista “che sfrutta” la donna, dunque, un’intuizione e anticipazione dell’idea di capitalismo consolidato nelle società industrializzate e occidentali. Sankara, dopo essersi schierato contro questo sistema, si rivolge al mondo intero, dichiarandosi propenso a ricevere suggerimenti circa l’integrazione della donna burkinabé e il suo inserimento nella struttura socio-economica.
Thomas Sankara è artefice di una rivoluzione di pensiero di “ispirazione femminista”, che preveda un confronto e una crescita. Sostiene loro quando dichiara: “Le donne in lotta proclamano all’unisono con noi che lo schiavo che non organizza la propria ribellione non merita compassione per la sua sorte. Questo schiavo è responsabile della sua sfortuna se nutre qualche illusione quando il padrone gli promette libertà. La libertà può essere conquistata solo con la lotta e noi chiamiamo tutte le nostre sorelle di tutte le razze a sollevarsi e a lottare per conquistare i loro diritti”.
Dalle sue parole, è chiaro il riferimento alla presenza, diffusa e prevista, delle donne tra le file dei “combattenti” per la libertà. L’evidenza della sua posizione, solidale con l’orientamento femminista, lo colloca dalla parte degli uomini della storia che, in maniera lungimirante, hanno saputo individuare e comprendere le priorità che definiscono la sfera femminile occupazionale, culturale e sociale. L’impegno di Thomas Sankara è volto a migliorare la vita delle donne e a promuovere uno scambio di esperienze tra i diversi paesi al fine di elaborare strategie di assimilazione delle donne nel tessuto economico e politico. C’è consapevolezza, oggi, da parte dei capi di stato africani e non, della necessità di lottare, in modo congiunto e solidale, con e per le donne, le quali sono una componente sociale imprescindibile?
Infine, Thomas Sankara si rivolge agli artisti africani e ai giornalisti, consapevole dell’enorme ruolo che essi rivestono nella società nell’orientare il pensiero comune, incidere nella formazione delle idee, condurre il dibattito pubblico lungo sfere d’interesse marginali e meno esplorate.
Parlo in nome degli artisti – poeti, pittori, scultori, musicisti, attori – che vedono la propria arte prostituita per le alchimie dei businessman dello spettacolo. Grido in nome dei giornalisti ridotti sia al silenzio che alla menzogna per sfuggire alla dura legge della disoccupazione. Protesto in nome degli atleti di tutto il mondo i cui muscoli sono sfruttati dai sistemi politici o dai moderni mercanti di schiavi.
Il mio paese è la quintessenza di tutte le disgrazie dei popoli, una sintesi dolorosa di tutte le sofferenze dell’umanità, ma anche e soprattutto una sintesi delle speranze derivanti dalla nostra lotta. Ecco perché ci sentiamo una sola persona con i malati che scrutano ansiosamente l’orizzonte di una scienza monopolizzata dai mercanti d’armi. Il mio pensiero va a tutti coloro che sono colpiti dalla distruzione della natura e ai trenta milioni di persone che muoiono ogni anno abbattute da quella terribile arma chiamata fame.
Di fronte la minaccia della disoccupazione, avvertita dagli artisti nei casi di massima esposizione mediale e, da alcuni giornalisti, Thomas Sankara sprona i professionisti a tenere alta la testa al cospetto dei sistemi politici e, di evitare forme di prostituzione morale – favorendo in tal caso i poteri più alti. Lo stesso invito è esteso agli sportivi, spesso strumento nelle mani del business. Le sollecitazioni di Sankara intendono, dunque, impedire che la “funzione” pubblica e sociale dell’artista e dell’intellettuale siano minacciate e il processo di identificazione e di consenso, attivato dallo sportivo – specie se portatore di messaggi positivi aventi lo scopo di sensibilizzare intorno a temi sociali – sia compromesso. Nena News
* La traduzione del discorso di Thomas Sankara è di Marinelle Correggia