Dal 1948 ad oggi le autorità israeliane usano l’arma della deportazione come deterrente a resistenza e attacchi. Aperta violazione del diritto internazionale, la storia ne ha ampiamente dimostrato l’inefficacia
di Giorgia Grifoni
Roma, 12 marzo 2016, Nena News – Se l’espulsione dei palestinesi dal paese è un sogno coltivato dal 48 per cento degli ebrei israeliani – come è emerso da un recente sondaggio – la deportazione di una parte di loro verso Gaza è una realtà sempre più concreta. È un sostegno che coinvolge gran parte dello spettro politico israeliano, quello al disegno di legge che, se approvato, vedrà il trasferimento forzato delle famiglie dei palestinesi responsabili di attacchi da Cisgiordania e Gerusalemme Est verso la Striscia di Gaza.
Un’idea del ministro israeliano dei Trasporti e dell’Intelligence Israel Katz, suggerita dal premier Benjamin Netanyahu dieci giorni fa in una riunione ministeriale, la bozza è stata sottoscritta dai deputati di tutti i partiti di maggioranza e anche da qualcuno dell’opposizione. Ora si tratta solo di convincere il nuovo Procuratore Generale Avichai Mandelblit, una delle poche voci contrarie a questo “atto di deterrenza di prima qualità” che ha tutta l’aria di una nuova – e vecchia – misura punitiva.
Secondo Mandelblit, infatti, la proposta viola sia la legge israeliana che quella internazionale, e potrebbe essere usata per trascinare Israele davanti alla Corte Penale Internazionale. Osservazioni totalmente ignorate dai suoi promotori, secondo i quali “tutti devono capire che siamo al culmine di una guerra condotta con attacchi terroristici stile Isis da parte dell’Islam radicale”.
Il Jerusalem Post riporta l’invito di Katz al procuratore generale di ripensarci e di cooperare perché la legge passi subito: “Questo è terrorismo da parte di individui – ha dichiarato – contro il quale non abbiamo intelligence supplementare: abbiamo bisogno di adottare misure deterrenti aggiuntive e preventive”.
Difficile schiacciare una rivolta che non ha un leader né una strategia precisa; impossibile controllarne i movimenti. Per questo, Tel Aviv ha messo in atto una serie azioni volte a punire i palestinesi per scoraggiarli a compiere nuovi attacchi: raid, demolizioni delle case dei “terroristi”, trattenimento delle salme, incarcerazioni preventive, chiusura delle strade e degli insediamenti colonici dove la manodopera è in gran parte palestinese.
Finora, le misure deterrenti adottate per combattere l’Intifada di Gerusalemme non si sono rivelate molto efficaci. A sei mesi dallo scoppio dei disordini, infatti, la conta dei morti ha superato i 180 palestinesi uccisi dal fuoco israeliano perché assalitori – veri o presunti – e i 24 israeliani accoltellati a morte.
Le autorità di Tel Aviv mostrano una totale estraneità alle vere cause della violenza – occupazione e disperazione – e adottano la tattica del “pugno di ferro” come strategia vincente. Eppure, questa tattica è stata recentemente messa in discussione persino dall’esercito israeliano: il suo nuovo capo di stato maggiore, Gadi Eizenkot, ha lasciato tutti a bocca aperta quando ha affermato di non volere che un suo soldato svuoti il caricatore su un ragazzino di 13 anni armato di coltello.
Il portale al-Monitor riporta inoltre i tentativi dell’Esercito di dare soluzioni alternative alle punizioni pensate dalla Knesset per fermare l’Intifada: aumento del numero di permessi di lavoro in Israele per migliorare l’economia palestinese; opposizione alle operazioni su vasta scala nei Territori; restituzione dei corpi degli aggressori palestinesi alle loro famiglie per la sepoltura. Difficile quindi credere, secondo Shlomi Eldar su al-Monitor, che l’Esercito e il resto dell’establishment di sicurezza stiano sostenendo l’espulsione delle famiglie degli assalitori verso Gaza. E la storia, a quanto pare, da’ loro ragione.
Netanyahu infatti non sarebbe il primo a proporre e implementare la deportazione di gruppi di palestinesi verso la Striscia. Lasciando da parte la Nakba e partendo dalla guerra dei Sei Giorni, quando Israele occupò tutti i territori palestinesi, restano registrate le deportazioni di migliaia di abitanti di Gaza verso l’Egitto almeno fino al 1978. Forse qualcuno ricorderà che nel 1987, pochi mesi prima dello scoppio della prima Intifada, la situazione era simile a quella attuale: il centro della protesta palestinese contro le pratiche dell’occupazione era proprio la Striscia di Gaza, allora piena zeppa di colonie e sotto totale controllo israeliano.
Gli “incidenti” – palestinesi uccisi dall’esercito e dai coloni, raid nei campi profughi, risposta palestinese – andavano avanti da qualche anno. Tra le misure “deterrenti” intraprese dal governo israeliano in quel periodo, va ricordato il trasferimento forzato di almeno 50 gazawi in quattro anni, richiesto e concesso nel 1985 all’allora ministro della Difesa Yitzhak Rabin. I disordini continuarono fino a sfociare in rivolta aperta nel dicembre del 1987, e non è un caso che tra le risoluzioni approvate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu tra il 1988 e il 1989, quattro invitassero Israele a “desistere dal deportare civili palestinesi e garantire il sicuro e immediato ritorno nei Territori palestinesi occupati di quelli già deportati”.
Gideon Levy, dalle colonne del portale Middle East Eye, ricorda inoltre che nel 1992, dopo il rapimento e l’omicidio di un poliziotto di frontiera israeliana, Rabin ordinò l’espulsione di non meno di 415 attivisti di Hamas e della Jihad islamica in Libano. “Il sistema giudiziario israeliano non è stato unanime a sostegno di questo passo estremo – scrive Levy – e ha stabilito che era illegale, ma dopo un ricorso da parte dei deportati all’Alta Corte di Giustizia, l’espulsione dei 415 attivisti è stata autorizzata. Lì, a Marj al-Zuhur, su una montagna libanese ghiacciata a temperature inferiori allo zero, si è evoluta la leadership di Hamas che gestisce l’organizzazione oggi. Problematica non solo dal punto di vista giuridico, quindi, l’espulsione si è anche dimostrata inefficace dal punto di vista di Israele. E che abbia indebolito il terrorismo, è assai dubbio”.
La politica delle deportazioni e delle demolizioni di case è stata implementata anche durante la Seconda Intifada (2000-2005): sebbene alcuni studi, come quello dal titolo “Contro-terrorismo suicida: prove dalle demolizioni di case” pubblicato sul Journal of Policy nel 2014, mostrino che nei primi mesi dalle deportazioni e dalle demolizioni si siano registrati meno attacchi da parte di palestinesi, la conclusione è che a lungo andare queste pratiche si siano mostrate inefficaci. E la situazione attuale lo dimostra a pieno.
Shlomi Eldar sul portale al-Monitor nota anche come la deportazione sia stata usata dal governo israeliano come “arma” in momenti diversi dalle sollevazioni palestinesi: come nel 2011, durante lo scambio di prigionieri per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, quando ai detenuti palestinesi rilasciati fu vietato di rientrare in Cisgiordania. Espulsi in Turchia e in altri paesi disposti a prenderli, alcuni furono inviati a Gaza. Eldar nota inoltre come questi ultimi siano stati poi riconosciuti come gli autori di alcuni attacchi sia dalla Striscia che da gruppi controllati in Cisgiordania.
Se le deportazioni sono quindi illegali secondo il diritto internazionale (IV Convenzione di Ginevra), la storia dei Territori occupati palestinesi degli ultimi 30 anni dimostra anche la loro effettiva inutilità, se non il loro contributo al alimentare la rabbia e la frustrazione palestinesi. Gideon Levy fa notare inoltre come Gaza, una prigione a cielo aperto da quasi 10 anni, sia assolutamente inadatta ad accogliere altri palestinesi. Gli ultimi dati provenienti dalla Ong israeliana Gisha per la libertà di circolazione parlano da soli: la disoccupazione è al 43 per cento; il 70 per cento degli abitanti di Gaza ha bisogno di assistenza umanitaria; il 57 per cento vive all’ombra dell’insicurezza alimentare.
Aggiungere altra povertà e frustrazione potrebbe alimentare una bomba a orologeria e Netanyahu non può non saperlo. La stampa israeliana si interroga sul reale fine dell’annuncio-choc del premier, avanzando ipotesi circa la sua mera valenza populistica: la bozza di legge non verrà mai approvata dal Procuratore Generale, ma Netanyahu si mostrerà ancora una volta come colui che vuole agire per fermare gli attacchi e proteggere lo stato di Israele dal “terrorismo”. Ma se così non fosse? Nena News
Giorgia Grifoni è su Twitter: @gitabb