Stallo nel negoziato tra Pechino e Tel Aviv sull’accordo per l’ingresso di migliaia di lavoratori cinesi. Dietro l’immigrazione straniera sta l’enorme business delle società private israeliane.
di Chiara Cruciati
Gerusalemme, 9 giugno 2015, Nena News – I lavoratori cinesi immigrati in Israele non devono essere impiegati nelle colonie nei Territori Occupati. Questo sarebbe l’ostacolo, secondo fonti israeliane anonime, alla sigla di un accordo tra Tel Aviv e Pechino per l’arrivo di migliaia di lavoratori cinesi in aziende israeliane di costruzione.
La preoccupazione del governo cinese sarebbe legata alle promesse elettorali del premier Netanyahu, rieletto il 17 marzo: intensificazione della costruzione di colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, considerata illegale dal diritto internazionale. Per farlo servono più lavoratori, da cui il tentativo di farne partire altre migliaia dalla Cina. Lo stesso ministro delle Finanze, Moshe Khalon, ha parlato del piano di inserimento di lavoratori cinesi proprio per accelerare la costruzione di nuove case e quindi abbassare i prezzi.
Ma Pechino potrebbe mettere il veto: sì all’ingresso ma solo se non saranno impiegati nelle colonie. “Stiamo negoziando con la Cina un accordo per l’arrivo di altri migliaia di lavoratori – ha detto il funzionario del governo israeliano, in condizione di anonimato, all’Afp – Ma per il momento il negoziato è fermo a causa di alcuni problemi, compreso l’impiego di tali immigrati nelle colonie in Giudea e Samaria [come viene chiamata, con nome biblico, la Cisgiordania dalle autorità di Tel Aviv, ndr]. Pechino chiede che gli si assicuri che i lavoratori non saranno mandati lì”.
L’accordo in questione ne andrebbe a sostituire uno precedente, che prevedeva il rapporto diretto con compagnie private ma che aveva generato seri problemi legati a violazioni delle leggi sul lavoro. E se Pechino non commenta, lo stesso funzionario israeliano ha tenuto a specificare che tale condizione non è legata alla campagna di boicottaggio che tanti grattacapi sta provocando ai vertici di Tel Aviv. È al contrario, dice, legata al sostegno della Cina alla soluzione a due Stati e quindi alla creazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967 da Israele.
La notizia, però, giunta a pochi giorni dalle dichiarazioni dell’amministratore delegato della compagnia francese Orange, che ha fatto sapere di voler disinvestire dalla compagnia telefonica partner in Israele, non fa certo fare i salti di gioia al premier Netanyahu. Nè alle tante compagnie private che negli anni hanno guadagnato milioni nel grande e profittevole business dell’immigrazione per lavoro dal sud est asiatico.
Dopo la diminuzione di lavoratori palestinesi in Israele, a seguito della Seconda Intifada, della costruzione del muro e dell’implementazione del complesso sistema dei permessi, Israele si è rivolto all’Asia e all’Est Europa per sostituire – soprattutto nel settore delle costruzioni – i muratori e gli operai palestinesi, attraverso accordi bilaterali con Romania, Moldavia, Bulgaria, Thailandia e Sri Lanka. In breve tempo si è venuto a creare un sottobosco di aziende e società che gestiscono l’assunzione e l’arrivo per periodi limitati di lavoratori stranieri, grazie agli appalti generosamente forniti dal governo israeliano. Ogni lavoratore straniero paga alla società israeliana una quota (tra i 5mila e i 6mila dollari) per poter accedere al mercato del lavoro israeliano. Per questo i contratti non superano i 5 anni: una volta che il lavoratori è costretto ad andarsene, un altro lo sostiuisce oliando costantemente la macchina del business interno.
Un sistema che ha provocato più di una polemica in Israele a causa degli scarsi controlli su queste società private, accusate in alcuni casi di violazioni gravi dei diritti dei lavoratori.
Lo scorso anno la quota massima di lavoratori stranieri da impiegare in Israele era stata aumentata dal governo da 8mila a 15mila unità. Oggi sarebbero circa 45mila gli operai arrivati da fuori il paese. L’organizzazione israeliana per i diritti dei lavoratori, Kav LaOved, ha raccolto testimonianze di immigrati costretti a pagare commissioni di 30mila euro alle compagnie che ne hanno permesso l’ingresso in Israele, una grave violazione della stessa legge israeliana. E un modo per ricattare il lavoratore: in media un muratore guadagna 1.550 dollari al mese: per poter coprire tale quota è costretto a restare legato al contratto con la compagnia per anni. Nena News
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