Mentre Albania, Kosovo e Macedonia del Nord hanno aperto le porte agli afghani evacuati da Kabul, gli altri paesi della regione hanno espresso la loro netta contrarietà a qualsiasi forma di accoglienza, seppur temporanea
di Marco Siragusa
Roma, 30 agosto 2021, Nena News – Poche ore e le truppe statunitensi lasceranno definitivamente l’Afghanistan. Alcuni paesi, inclusa l’Italia, hanno già concluso le operazioni di rimpatrio del proprio personale e di evacuazione dei cittadini e delle cittadine afghane che negli anni hanno collaborato con la missione NATO. Il più grande ponte aereo della storia è stato lanciato all’indomani della presa di Kabul da parte dei Talebani con una dichiarazione del 15 agosto del Dipartimento di Stato USA in cui si invitavano le parti coinvolte a “rispettare e facilitare la partenza sicura e ordinata dei cittadini stranieri e afghani che desiderano lasciare il paese”.
Dato l’altissimo numero di evacuati (gli ultimi numeri parlano di oltre 150mila persone) gli Stati Uniti hanno chiesto ai propri partner di accogliere temporaneamente i cittadini afghani in attesa di ricevere i documenti necessari per entrare negli USA. I primi paesi al mondo a dare la propria disponibilità sono stati l’Albania, il Kosovo e la Macedonia del Nord. Tra i più poveri e con i più alti tassi di emigrazione d’Europa, tutti e tre i paesi rappresentano ormai da decenni i più fedeli alleati statunitensi nella regione balcanica.
Particolarmente appassionata la risposta della ministra degli Esteri albanese Olta Xhacka che ha parlato di “dovere morale”, mentre il primo ministro Edi Rama ha paragonato la fuga degli afghani all’esodo del suo popolo nei primi anni ’90. Proprio questo rimando a “una storia che ha scritto pagine straordinarie di accoglienza data e ricevuta” ha spinto il premier a garantire ospitalità a oltre 3 mila persone. Il 27 agosto è atterrato all’aeroporto di Tirana il primo volo con a bordo 121 persone, trasferite poco dopo in alcuni alberghi situati nella zona di Durazzo. Complessivamente sono già 470 le persone giunte in Albania. All’arrivo era presente anche l’ambasciatrice statunitense Yuri Kim che ha ringraziato il paese delle aquile per il sostegno e l’ospitalità. L’Albania, membro della NATO dal 2009, ha partecipato alla missione internazionale in Afghanistan a partire dal 2010 con una presenza massima di 99 truppe dislocate tra Kabul ed Herat. Due le vittime registrate in undici anni di missione, l’ultima delle quali nel gennaio di quest’anno.
Altrettanto significativa la disponibilità mostrata dalle autorità del Kosovo, per anni protettorato de facto degli Stati Uniti. Il primo ministro Albin Kurti, che appena un anno fa aveva avuto un durissimo scontro con l’amministrazione Trump, ha apertamente riconosciuto come “la questione dell’accoglienza dei rifugiati afghani, a parte l’aspetto della solidarietà umanitaria, ha una dimensione di alleanza e partenariato con gli Stati Uniti”. A fargli da eco la presidente Vjosa Osmani secondo cui “nessuno meglio dei kosovari sa cosa significa essere espulsi e partire con la forza da dove si è cresciuti, separati dai cari e costretti a fuggire per salvare la vita”. Le autorità kosovare hanno garantito accoglienza a circa 2 mila persone per un periodo di un anno. Nella serata di domenica è atterrato il primo volo con a bordo 111 persone, ospitate nelle vicinanze della base USA di Camp Bondsteel a 40 km dalla capitale Pristina.
Per quanto riguarda la Macedonia del Nord, il governo socialdemocratico guidato da Zoran Zaev si è detto disponibile ad accogliere 450 persone coinvolte “in missioni umanitarie e di mantenimento della pace, attivisti di organizzazioni per i diritti, giornalisti, traduttori e studenti”. Il paese ha partecipato alla missione ISAF con l’invio di 10 militari nel febbraio 2003, poi saliti fino a 152 nel 2007.
Chi invece non ha nessuna intenzione di accogliere gli afghani in fuga dai Talebani sono soprattutto Montenegro e Slovenia, con la Serbia nel solito ruolo di doppiogiochista e la Bosnia Erzegovina automaticamente tagliata fuori visto il grande numero di migranti, tra cui moltissimi afghani, ancora presenti nel proprio territorio. Poco più che di facciata il sostegno mostrato dalla Croazia. Zagabria si è infatti limitata ad accogliere 20 persone, con il primo ministro Andrea Plenković preoccupato di “una nuova marea migratoria capace di destabilizzare l’Europa”. Il ministro degli Esteri Gordan Grlić-Radman ha inoltre ricordato come sia ormai tutto pronto per l’entrata del paese nell’area Schengen e che l’obiettivo è adesso quello di “proteggere i confini dell’UE”.
Belgrado, in linea con la politica equilibrista del presidente Aleksandar Vučić, ha sottoscritto con qualche giorno di ritardo la dichiarazione degli Stati Uniti ma ha già fatto capire che nessun aereo proveniente da Kabul atterrerà nel paese. Una posizione che ha come obiettivo quello di non isolarsi nel sostegno formale alle operazioni di evacuazione senza per questo turbare troppo nuovi e vecchi alleati (Cina e Russia) impegnati a ritagliarsi un ruolo nell’Afghanistan post occupazione NATO. Sottoscrizione formale della dichiarazione USA senza adesione al piano di collocamento temporaneo dei cittadini afghani è stata la posizione anche del governo montenegrino, tra le cui fila giocano un ruolo decisivo partiti filo-serbi e filo-russi.
Chi ha mostrato la contrarietà più netta è stato invece il presidente sloveno Janez Janša, che ricopre attualmente anche la presidenza semestrale del Consiglio dell’Unione Europea. In un Tweet del 22 agosto, Janša ha chiuso le porte a qualsiasi accordo unanime tra i paesi membri dell’Ue sulla possibile apertura di corridoi umanitari affermando che il suo paese “non permetterà che si ripeta l’errore strategico del 2015. Dobbiamo aiutare solo gli individui che ci hanno aiutato durante l’operazione Nato e quei Paesi che sorvegliano il confine esterno dell’Ue per proteggerlo completamente”.
Un ruolo, quello della protezione dei confini europei, egregiamente esercitato da Slovenia e Croazia che negli ultimi anni hanno quasi completamente chiuso la cosiddetta rotta balcanica attraverso respingimenti illegali, violenze al confine e mancato rispetto dei basilari diritti umani. Le dichiarazioni di Janša hanno scatenato la dura reazione del presidente del Parlamento europeo David Sassoli secondo cui “non spetta al presidente di turno dire cosa farà l’Unione Europea”. La forte contrapposizione sul tema dei migranti che va avanti ormai da diversi anni tra gli stati membri dell’Unione, sembra però far pendere l’ago della bilancia in favore di Janša, sostenuto da paesi come Ungheria e Grecia che proprio in questi giorni ha concluso i lavori per un nuovo muro al confine con la Turchia.
Quello che accomuna tutti i paesi, europei e non, è l’ipocrisia con cui viene affrontata la vicenda dei migranti afghani. Nell’ultimo decennio infatti, circa 700 mila afghani hanno fatto richiesta di asilo in paesi europei dopo aver attraversato la rotta balcanica, rimanendo spesso bloccati negli inospitali campi profughi al confine tra Croazia e Bosnia o nelle isole della Grecia noti per le loro condizioni disumane. Molte di queste domande sono state respinte dalle varie commissioni nazionali che riconoscevano l’Afghanistan come “paese sicuro”. Improvvisamente, il mondo intero si è reso conto dell’insuccesso dell’occupazione occidentale e degli enormi problemi derivanti dal ritorno al potere dei Talebani. Oggi, per le potenze occidentali, solo i collaboratori hanno diritto ad essere aiutati e accolti mentre le centinaia di migliaia di persone scappate negli anni dal fuoco incrociato dei Talebani e delle bombe NATO non godono ancora di nessun “diritto alla salvezza”.
Ma sarà proprio su queste persone, e su quelle che arriveranno illegalmente ai confini europei nei prossimi mesi, che si giocherà la vera partita dell’accoglienza.