L’accordo sui migranti tra UE e Ankara potrebbe creare un precedente per l’emergenza in Libia. Tripoli chiede un intervento militare e un’intesa sull’immigrazione, Bruxelles si prepara a blindare i confini
di Giovanni Pagani
Roma, 29 aprile 2016, Nena News – Mentre il neonato governo Al-Serraj fatica a imporre la propria autorità politica ed economica su buona parte della Libia, un accordo sui migranti tra Bruxelles e Tripoli, seguendo il modello stabilito a marzo da UE e Turchia, sembra più prossimo della stessa unità nazionale libica. Nonostante il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, abbia chiarito ieri che “i rimpatri non potranno avvenire su Tripoli, poiché la Libia non è un paese libero come la Turchia”, l’inaugurazione della nuova sede di Frontex a Catania – il 27 aprile scorso – ha fornito al ministro degli Interni Angelino Alfano l’occasione per fare riferimento a un negoziato sul modello turco con il governo Al-Serraj, “qualora le condizioni dovessero consentirlo”. Ipotesi già accarezzata dal ministro una settimana fa a Lussemburgo, e ribadita dal vice-presidente libico, Ahmed Maetig, in visita a Roma il giorno seguente.
Fare riferimento all’asse Bruxelles-Ankara riguardo al dossier libico può avere due conseguenze. Da un lato vi è l’idea che l’accordo tra UE e Turchia – al di là delle critiche – rappresenti il primo passo di politica comune europea in materia d’immigrazione; da riproporre nel suo carattere corale ma non necessariamente nel suo schema di funzionamento. Dall’altro, vi è invece l’ipotesi di replicare con Tripoli la stessa intesa trovata con Ankara; riapplicando il sistema dei respingimenti verso un paese terzo – soluzione già di dubbia legalità nel caso turco – al contesto libico. Su questo secondo scenario, già poco realistico per la precaria stabilità del paese, peserebbe anche l’eredità scomoda degli accordi bilaterali tra Roma e Tripoli; siglati nel 2009 da Muhammar Gheddafi e il governo Berlusconi – all’interno del quale lo stesso Angelino Alfano serviva come ministro della Giustizia – e ripetutamente accusati di violare il diritto internazionale.
Secondo l’accordo siglato il 18 marzo scorso, in cambio di 6 miliardi di euro in due anni e della liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi entro giugno 2016, Ankara s’impegnerà a riaccogliere i respingimenti effettuati dalle autorità greche; alleggerendo quella rotta balcanica che aveva messo così a dura prova Schengen negli ultimi mesi. La Turchia costituirà dunque il ‘paese terzo’ verso cui saranno espulsi sia i ‘migranti economici’ sia coloro che hanno inoltrato una domanda di asilo e sono in attesa di approvazione; con un rapporto di un siriano accolto in Europa per ogni siriano respinto in Turchia. L’accordo, che Bruxelles definisce come “una soluzione all’immigrazione illegale”, ha incontrato le critiche delle Nazioni Unite e altre organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti umani.
In particolare, sull’intesa tra UE e Ankara rimangono almeno tre perplessità. La prima ruota attorno alla dubbia legalità dei respingimenti verso un ‘paese terzo’, che secondo molti osservatori rappresenta una violazione delle stesse norme d’asilo sottoscritte dai 28 membri dell’Unione. La seconda riguarda la classificazione della Turchia come ‘paese terzo sicuro’: sia Human Rights Watch che Amnesty International hanno infatti esposto varie ragioni per le quali lo stato turco non rappresenta una destinazione idonea per i respingimenti; mentre almeno 20 profughi siriani sarebbero stati uccisi in questo mese dalle guardie frontaliere turche, nel tentativo di cercare rifugio oltre il confine. La terza perplessità riguarda invece la mancata corrispondenza tra le norme di asilo sottoscritte dall’Unione Europea e quelle scelte da Ankara; a notevole svantaggio dei migranti di nazionalità non siriana – spesso etichettati come ‘migranti economici’ -, che rischiano di essere deportati nei rispettivi paesi di origine una volta riallocati in territorio turco. È ad esempio il caso dei rifugiati pakistani – tra i primi a essere respinti in Turchia dalle autorità greche -, che a seguito di un provvedimento varato dal parlamento turco l’8 aprile, potranno essere deportati in Pakistan.
In Turchia si trovano oggi 3 milioni di rifugiati. 2,7 di questi provengono dalla Siria, mentre la restante parte è composta da iracheni, afghani, somali, pakistani e palestinesi. Come testimonia il baratto di ‘un siriano in Europa per ogni siriano respinto in Turchia’ – esplicitato nel testo ufficiale -, precondizione dell’accordo con Ankara è l’emergenza umanitaria costituita dalla guerra in Siria. In Turchia, i siriani hanno infatti uno status di rifugiati temporanei, in attesa di fare ritorno in patria o di essere accolti in Europa con diritto all’asilo politico.
Se si dovesse immaginare di applicare uno schema analogo allo scenario libico – tralasciando per un istante la legalità dei respingimenti e l’evidente inadeguatezza della Libia come ‘paese terzo sicuro’ – la differente provenienza dei migranti rischierebbe di rendere i rimpatri ancor più massicci. Nonostante sia infatti lecito immaginare che la chiusura della ‘rotta balcanica’ possa deviare il flusso migratorio sulle coste italiane – complice anche l’arrivo dell’estate, dunque di condizioni più favorevoli alla navigazione -, un accordo con la Libia per arginare gli sbarchi andrebbe a intervenire più nei confronti dei migranti dell’Africa sub-sahariana che dei siriani o degli iracheni. E se a ciò si somma che la grossolana distinzione tra ‘migranti economici’ e rifugiati politici – sempre più operata sulla base della nazionalità del richiedente asilo e non di una valutazione caso per caso -, buona parte dei profughi salpati dalla Libia verrebbero respinti; a probabile esclusione degli eritrei, dei siriani e degli iracheni, per i quali è più semplice ottenere protezione internazionale.
In questo quadro, il modello proposto dal migration compact – documento presentato dall’Italia alla Commissione Europea e al Consiglio UE il 15 aprile scorso – sembra suggerire il respingimento dei non aventi diritto di asilo verso i rispettivi paesi d’origine, sulla base di accordi bilaterali tra l’Unione Europea e gli stati sub-sahariani dai quali la maggior parte dei migranti provengono. Tuttavia, i continui riferimenti a un accordo con la Libia in seguito al precedente turco fanno tutt’altro che chiarezza, sia sulla questione dei rimpatri sia sul potenziale ruolo giocato da Tripoli. La decisione statunitense di affiancare le navi europee nelle acque libiche – come già accade nel Mar Egeo – in vista di un possibile blocco navale attivo da quest’estate, non fa che rendere il ruolo libico ancor più torbido. Soprattutto di fronte a un governo che vive unicamente del sostegno esterno e che è pronto a chiedere all’Europa qualsiasi cosa questa gli suggerisca di chiedere. Da un intervento armato contro l’Isis a un’intesa sull’immigrazione. Nena News
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