Centinaia di migliaia di rifugiati hanno passato la frontiera libico-tunisina per sfuggire alla guerra della Nato nel 2011. Nel campo di Choucha, chiuso il 30 giugno 2013, vivono ancora dei rifugiati abbandonati nel deserto, ma risoluti a non arrendersi alle decisioni delle Nazioni Unite.
di Ika Dano – foto di Manuela Maffioli*
Tunisi, 30 giugno 2015, Nena News – “È la strategia dello spossamento. Chi non ce la fa a resistere, molla, e accetta di rinunciare al suo diritto – riassume il liberiano Kinsely, e per la prima volta il sorriso gli sparisce dalla labbra – Cosa volete che facciamo? Che saliamo anche noi su una barca per morire nel Mediterraneo?”. Per tutto il giorno i portavoce del collettivo Voiceofchoucha hanno cercato di tenere alto il morale: ancora una volta sono stati invitati a Tunisi per ribadire la loro rivendicazione di essere riconosciuti come rifugiati politici dal’Occidente e dalla sua retorica dei diritti umani. E di essere trasferiti dal deserto, in cui vivono da quattro anni, in uno Stato sicuro, che garantisca loro asilo politico. “L’Unhcr finisci il tuo lavoro”, si legge sui loro striscioni.
Secondo fonti dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite (Unhcr), un milione di persone in fuga avrebbe passato la frontiera libico-tunisina nei soli primi sei mesi della crisi libica del 2011, intensificatasi con l’inizio dei bombardamenti francesi e americani il 19 marzo 2011, poi unificati sotto l’intervento Nato Unfied Protector. Tra di loro, almeno 200 000 subsahariani, rifugiati o migranti lavoratori a basso costo in Libia.
“All’inizio abbiamo dovuto lottare con l’Unhcr addirittura per farci registrare – ci spiega Bright, un trentenne nigeriano del collettivo Voiceofchoucha – Volevano registrare solo i somali e gli eritrei che parevano loro rifugiati più plausibili. Ma anche noi siamo tutti fuggiti in Libia dai nostri Paesi perché perseguitati o personalmente o politicamente”. “Sai, a volte la questione non è dove andare – continua con lo sguardo fisso nel vuoto, perso in ricordi difficili – le condizioni in cui ti trovi non ti lasciano scelta. Puoi semplicemente fuggire, non importa dove. È così che sono arrivato in Libia”.
E dalla Libia in guerra al deserto tunisino, a una ventina di chilometri dalla frontiera. Lui, come tanti altri, è qui da quattro anni e mezzo. La maggior parte dei rifugiati arrivati qui era del Bangladesh o di Paesi subsahariani. I più sono stati rimpatriati al Paese di origine, e 3176 hanno ottenuto il trasferimento in Paesi europei o nordamericani. A chi non poteva né tornare né sperare in uno dei rari casi di riconoscimento di protezione internazionale a distanza da parte di Stati terzi, è stato proposto un permesso di soggiorno temporaneo in Tunisia, nelle città di Ben Guerdane e Medinine. Considerato il lavoro come terminato, il 30 giugno del 2013 l`Unchr ha ufficialmene chiuso il campo e interrotto i servizi elementari come distribuzione di acqua e cibo e l’infermeria. Abbandonando nel campo circa 200 persone non disposte ad accettare l‘integrazione locale in un Paese dove non esiste neppure una legislatura sul diritto all’asilo.
“Non ogni essere umano è fatto per resistere alla lenta tortura quotidiana che sopportiamo noi nel mezzo del deserto - spiega Bright – Solo chi viene a vedere Choucha capisce cosa vuol dire vivere sotto il sole cocente e le tempeste di sabbia, dovendo elemosinare ogni giorno un po’ di acqua e di cibo a chi viaggia sulla strada per la Libia”. A due anni dalla chiusura, sono circa 70 i giovani uomini dalla Nigeria, Liberia, dal Sudan, Kenya, Gana, Chad come dall’Egitto e Costa d’Avorio, a vivere ancora nel campo abbandonato. E a continuare a ribadire il loro diritto al riconoscimento come rifugiati politici.
Secondo uno studio condotto in cooperazione con l’Oxford Institute of Forced Migration, l‘Unhcr a Choucha non avrebbe rispettato i propri standard, non garantendo interrogatori adeguati atti a stabilire le cause individuali di fuga, né l’accesso a strumenti legali per fare ricorso. Rappresentanti delle autorità di Paesi quali il Ciad avrebbero inoltre ottenuto dalle Nazioni Unite a scopo intimidatorio l‘accesso al campo e ai dati personali dei connazionali. Alla luce di queste irregolarità, i rifugiati di Choucha non vogliono arrendersi. E chiedono da anni che i loro casi vengano riesaminati adeguatamente e venga trovata una soluzione congrua al diritto internazionale all’asilo. “Alcuni giornalisti hanno scritto che non accettiamo di integrarci in Tunisia perché qui non c’è lavoro – continua Bright determinato – ma chi rimarrebbe per 4 anni in un deserto per sola paura di non trovare un lavoro? No, noi vogliamo il nostro diritto! E non accettiamo pìu di essere i capri espriatori in Tunisia, dove siamo stati trattati brutalmente sia dalle istituzioni internazionali che nazionali, e dove non c’è neppure un quadro legislativo”.
Prende fiato, poi rincalza: “Vai a verificare se nelle città di Ben Guerdane e Medenine c’è un solo rifugiato di Choucha che vi è stato trasferito con il programma di integrazione tunisino! Sono partiti tutti a morire in mare”.
Non per niente, la Tunisia deve diventare un bravo gendarme dell’Europa. Solo poche settimane fa, il presidente Béji Caïd Essebsi era ospite d’onore al summit del G7 in Baviera, a titolo di riconoscimento dei progressi fatti verso la “transizione democratica”. E per ridiscutere della necessità di stretta cooperazione tra le due rive del Mediterraneo in materia di lotta alla migrazione illegale e al terrorismo. A far fede alla sua buona volontà, l’emulgazione della Costituzione, che con l’articolo 26 prospetta il futuro riconoscimento “del diritto all’asilo politico secondo la legge” e la siglazione del “Partenariato di mobilità” del 2014 per una migliore “gestione delle frontiere” tra EU e Tunisia. Rimane da verificare se la strategia europea di esternalizzazione delle sue responsabilità andrà a buon fine. Soprattutto a lungo termine. Nena News
*La fotografa Manuela Maffioli è stata nel campo di Choucha quattro volte. La sua prima visita risale al marzo del 2011, poco dopo la sua apertura. Quattro anni dopo, chi vi è passato e in parte rimasto rischia di cadere nel dimenticatoio
DIDASCALIE DELLE FOTO:
1. Tempesta di sabbia. I rifugiati sono esposti a tutte le intemperie
2. Donna con figlia
3. Dopo la tempesta di sabbia, la pioggia. Non assorbita dal deserto, allaga le tende
4. File interminabili per i pasti. Ottenuta la colazione, è ora di mettersi in fila per il pranzo, poi per la cena
5. Si aspetta seduti sulle riserve di coperte da distribuire
6. Piccolo segmento della folla dei lavoratori del Bangladesh che aspettano il passaporto dall’Unhcr per il rimpatrio
7. Neonato appena arrivato aspetta nelle braccia di sua madre che gli venga ssegnata una tenda
8. Come l’esodo di Gesú e Maria
9. 16.03.2011: I rifugiati sudanesi protestano perché l’Unhcr tratti velocemente i loro dossier
10. Giovane del Bangladesh, la comunità più numerosa nel campo
11. Bambino di famiglia palestinese nato al campo di Choucha
12. 05.04.2011: All’arrivo di Angelina Jolie, un suo fan si strappa i capelli mentre i suoi amici lo prendono in giro. Rifugiati, militari e giornalisti si precipitano per vedere la star investe di ambasciatrice dell’Unhcr
13. Una famiglia improvvisa un fuoco per scaldarsi alle prime luci dell’alba
14. Rifugiato di fede cristiana immerso nella preghiera
15. Commozione dell’addio. Due rifugiati sull’autobus in partenza per l’aereoporto di Jerba per essere trasferiti in un paese scandinavo
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Manuela Maffioli est une photographe exceptionnelle, ses photos traduisent le vécu l’émotion du moment avec une maîtrise insigne et remarquable de l’esthétisme. Ses noirs et blancs sont intenses, lumineux et vivants.