La nostra rubrica vi porta oggi nel Congo dove l’Oms ha confermato sei nuovi casi di ebola negli ultimi 21 giorni e vi parlerà della proposta di testare in Africa i vaccini contro il Coronavirus. Un’idea che è frutto della secolare disumanizzazione razzista fatta dall’Occidente nei confronti della popolazione africana
di Federica Iezzi
Roma, 25 aprile 2020, Nena News –
Repubblica Democratica del Congo
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato che sei nuovi casi di ebola sono stati confermati nella Repubblica Democratica del Congo negli ultimi 21 giorni. I nuovi casi sono stati confermati a Beni, una città nel cuore dell’ultima epidemia, nelle regioni orientali del Paese.
I team sanitari locali, in collaborazione con l’OMS, sono già sul campo per approfondire le indagini e attuare azioni di controllo e eventuale quarantena.
Fino a metà febbraio non erano stati registrati nuovi casi, dopo l’epidemia emersa nell’agosto 2018 che da allora ha ucciso più di 2.200 persone delle 3.461 infette.
Dopo 52 giorni senza un caso, le squadre di sorveglianza e di risposta sul campo hanno confermato il nuovo caso, secondo quanto affermato da Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore Generale dell’OMS.
Sfortunatamente, questo significa che il governo della Repubblica Democratica del Congo non sarà in grado di dichiarare la fine dell’epidemia di ebola, come sperato.
L’OMS aveva dichiarato l’epidemia un’emergenza di salute pubblica di interesse internazionale nel luglio del 2019, dopo che il virus altamente contagioso ha minacciato di diffondersi nella grande città di Goma e nei Paesi vicini.
Il corso dell’epidemia è cambiato con il lancio di due vaccini, prodotti da Merck e Johnson & Johnson, che sono attualmente in fase di studio clinico, dunque non ancora autorizzati, per immunizzare più di 300.000 persone.
La regione del Nord Kivu, epicentro dell’epidemia, è una zona di conflitto attiva in cui operano dozzine di gruppi armati, secondo il database Kivu Security Tracker.
La diffidenza nei confronti degli interventi sanitari da parte delle organizzazioni internazionali è legata anche a preoccupazioni della popolazione della regione indigente, dove la malaria, il morbillo e altre malattie infettive minori uccidono migliaia di civili ogni anno.
Le analisi pubblicate sulla rivista The Royal Society Journal lo scorso anno hanno anche messo in guardia sul fatto che il conto alla rovescia di 42 giorni potrebbe non essere sufficiente per decretare con sicurezza che la risoluzione dell’epidemia.
Coronavirus e Africa
Continuano le polemiche attorno all’insana proposta di testare i vaccini per il virus SARS-CoV-2 sulla popolazione africana, perfino priva di dispositivi di protezione individuale.
Ma il tipo di pensiero nascosto sotto queste intenzioni non è una novità. Fa parte di una tendenza che per generazioni ha visto la disumanizzazione di alcune persone a causa del complesso di superiorità di altre.
La disumanizzazione del sud del mondo è stata una delle forze trainanti già del commercio di schiavi e del colonialismo.
All’inizio dello scorso marzo, quando le positività al COVID-19 hanno iniziato una curva di crescita esponenziale, alcuni rappresentanti della comunità internazionale, hanno analizzato il basso numero di contagi nel continente africano.
Il tono di queste domande ha avuto l’immediato effetto di interrogarsi se la popolazione africana fosse, in qualche modo, geneticamente immune al nuovo coronavirus.
I ricercatori sanno fin troppo bene che condurre ricerche nel nord del mondo è sicuramente più oneroso e la burocrazia da attraversare è infinita. Nel sud del mondo, al contrario, i grandi prodotti farmaceutici, spesso con il supporto complice di funzionari governativi, vengono testati senza intoppi, spesso grazie alla generale disinformazione.
Ma quando si suggerisce che l’Africa debba essere inclusa come parte di uno studio sui vaccini, non sorprende che i sospetti si accendano, specialmente quando ci sono relativamente meno casi nel continente africano di quanti ce ne siano in Europa e negli Stati Uniti.
In che modo ci si aspetta che la popolazione africana non reagisca all’ennesimo tentativo di usarli come cavie per sviluppare farmaci che servirebbero al nord del mondo, i cui sistemi sanitari ben finanziati possono permettersi i costosi farmaci salvavita, per la cui carenza gli stessi africani spesso muoiono?
Nell’epidemia di ebola nell’Africa occidentale del 2014, ad esempio, oltre 250.000 campioni di sangue sono stati raccolti da pazienti africani, in laboratori di Francia, Regno Unito e Stati Uniti, spesso senza consenso informato, per aiutare i ricercatori nella creazione di nuovi vaccini e medicinali. Ancora oggi, i ricercatori sudafricani, francesi e americani si rifiutano di rivelare quanti di questi campioni conservano ancora, citando come dettame la sicurezza nazionale.
Ma i casi non sono sporadici. Nel 1996, lo stato di Kano in Nigeria fu l’epicentro di un’epidemia di meningite. All’epoca Pfizer, una delle più grandi aziende farmaceutiche di ricerca al mondo, decise di condurre studi clinici per testare un farmaco che stava sviluppando.
Pfizer ha trascurato di acquisire il consenso informato dei pazienti. Fu solo nel 2009 che Pfizer pagò 75 milioni di dollari al governo dello stato di Kano e 175.000 dollari ai genitori di quattro dei bambini che erano morti durante l’epidemia e le prove cliniche.
Prove e test simili sono stati condotti in Zimbabwe nel 1994 con i farmaci antiretrovirali, per la cura dell’infezione da HIV. Nena News
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