Viaggio nelle campagne del Delta del Nilo tra i contadini che si battono contro la confisca delle terre da parte del governo, della polizia e di uomini d’affari legati al vecchio e al nuovo regime.
di Ignazio Errico
Srosou (Egitto), 01 giugno 2015, Nena News – La piccola Hend ha appena sette mesi, ma sarà ricordata come “la più giovane detenuta della storia”, dicono i suoi prendendola in braccio mentre raccontano l’incredibile storia del suo arresto. La bimba, vestita a festa per l’occasione, sorride timida agli scatti dei fotografi e alle telecamere delle (poche) televisioni presenti. Loro sono contadini del villaggio di Srsou, del governatorato di Daqhaliyya, nel Delta del Nilo, e l’occasione è la conferenza stampa organizzata al Cairo il 24 maggio dal Partito della Coalizione Popolare Socialista (Hezb el-Tahalof el-Sha’bi el-Ishtirakiyy) sotto lo slogan “Fermare la corruzione delle istituzioni statali! Dare ai contadini le loro terre!”.
Lo scorso 24 aprile una ventina di famiglie del villaggio di Srsou si sono ritrovate a fronteggiare centinaia di uomini armati, tra poliziotti e gang criminali al soldo di potenti uomini di affari, e dopo ore di scontri la giornata si è conclusa con decine di feriti da arma da fuoco e una indiscriminata campagna di arresti che ha portato dietro le sbarre ventiquattro persone, incluse Hend, sua madre e gran parte della sua famiglia. L’operazione mirava ad espellere queste famiglie dalle terre concesse oltre trent’anni fa dall’ultima riforma agraria del presidente Gamal Abd el-Nasser, mirata a ridurre il potere dell’aristocrazia fondiaria e a redistribuire almeno in parte le terre a piccoli contadini.
Il loro diritto a quelle terre è confermato da alcune sentenze emanate in anni recenti da corti locali, ma il potere dei latifondisti è sopravvissuto alle riforme nasseriane, e la famiglia al-Masri, che oggi pretende di espropriare i contadini di Srsou a suon di violenze e denunce, per eseguire lo sfratto è riuscita a mobilitare addirittura i reparti di polizia di tutta la regione. Oggi la famiglia è rappresentata da ‘Aziz al-Masri, rampollo del vecchio Farid, esponente locale del dissolto Partito Nazionale Democratico di Mubarak, e proprietario un piccolo impero industriale nel settore della ceramica e dei sanitari.
Ma i fatti di Srsou non sono una storia isolata e rappresentano solo il più recente e brutale di una lunga serie di conflitti diffusi praticamente in tutte le regioni rurali dell’Egitto. Alla conferenza stampa infatti partecipano contadini da diversi governatorati egiziani, sia dal Delta che dall’Alto Egitto. Si alternano anziani in galabeya (il lungo abito tradizionale egiziano), pelle scura e voci pacate, a giovani in camicia bianca, baffi scuri, e dai toni combattivi. Lamentano una serie di politiche governative che negli ultimi venti anni hanno favorito l’importazione a scapito della produzione interna, portando alla quasi totale sparizione di colture come il cotone e ad una spietata concorrenza nei confronti dei prodotti alimentari di base. Le loro terre, dicono, potrebbero sfamare il paese, ma lo Stato preferisce incoraggiare i grandi produttori che puntano all’export e dipendere dal commercio internazionale per coprire il fabbisogno alimentare (l’Egitto è da anni il più grande importatore al mondo di grano).
Loro rappresentano la categoria più numerosa ma più povera e svantaggiata dei contadini egiziani, quelli che coltivano meno di 5 feddan a famiglia (circa 2 ettari). In occasioni come queste portano sempre tutti con sé pacchi di documenti ufficiali e sentenze che provano il loro diritto di proprietà sui terreni, e le storie che si susseguono sembrano tutte varianti diverse di uno stesso copione. Potenti famiglie e gruppi di affari legati al vecchio regime (ma con ottimi rapporti anche con il ‘nuovo’), che con la complicità degli apparati statali, espropriano decine e a volte centinaia di ettari di terre a piccoli contadini, spesso senza alcuna base giuridica, per far spazio ai propri interessi speculativi nel mercato immobiliare o a grandi progetti di agri-business dove gli ex-contadini ormai espropriati sono destinati, nella migliore delle ipotesi, a vendersi a giornata come manodopera.
L’origine della lunga serie di conflitti intorno alla terra in Egitto risale ai primi anni ’90 quando gran parte delle misure a garanzia dei piccoli contadini concesse all’epoca di Nasser sono state velocemente eliminate dalla svolta neoliberista di Mubarak. La situazione si è di fatto ribaltata a favore dei grandi proprietari soprattutto a partire dalla legge 96 del 1992, anche detta ‘legge di Youssef Wali’, discendente di una grande famiglia latifondista, ex-vice primo ministro, ex-segretario generale del partito di Mubarak, ex-deputato, e per molti anni anche ministro dell’Agricoltura. La legge 96 ha gradualmente eliminato il tetto imposto agli affitti delle terre e il vincolo che garantiva al fittavolo l’ereditarietà del contratto. L’effetto immediato è stato un aumento vertiginoso dei canoni (fino a 20-25 volte tanto i prezzi pre-riforma), tale che nel giro di pochi anni oltre 900mila contadini sono stati cacciati dalle terre che per decenni avevano coltivato e che di fatto consideravano ormai un diritto acquisito. La situazione ha generato nuovi processi di concentrazione della proprietà terriera che continuano ancora oggi ma anche una lunga stagione di lotte contadine, che dagli anni ’90 ad oggi hanno causato centinaia di morti e migliaia di casi di arresti, torture e maltrattamenti .
Colpito da decenni di abbandono, marginalizzazione economica e sociale, carenza cronica di servizi e altissimi tassi di povertà ed emigrazione, l’Egitto rurale viene generalmente considerato la parte più ignorante e conservatrice del paese, sempre pronta a vendere il proprio voto ai signorotti locali o in alternativa a cedere al richiamo dei movimenti islamisti. In realtà, sebbene ignorati dai grandi media, e spesso anche da una certa opposizione liberale e di sinistra, tutta Cairo-centrica e concentrata su questioni considerate più genuinamente ‘politiche’, i contadini hanno pagato forse il tributo di sangue più alto nella lotta contro l’ingiustizia e la corruzione del regime, rompendo il muro di paura e di consenso intorno al regime e alle sue politiche neoliberiste.
Anche molti dei resoconti della ‘Rivoluzione di Gennaio’ del 2011 sembrano escludere un ruolo delle zone rurali, spesso trascurate o al più dipinte come passive e indifferenti rispetto agli sconvolgimenti che avvenivano nella capitale. Quasi sempre infatti la narrazione si concentra sugli ormai leggendari diciotto giorni che hanno portato alla caduta del raìs, sulla piazza divenuta simbolo del riscatto del popolo egiziano (Midan el-Tahrir) e sulle rivendicazioni di democrazia e libertà civili che essa esprimeva.
Eppure, allargando lo sguardo, il quadro che emerge è ben più complesso e diversificato. Pochi ricordano che uno dei primissimi effetti della rivolta del gennaio 2011, ovvero il collasso dell’apparato di sicurezza statale e la vera e propria scomparsa della polizia dalle strade del paese sin dai primissimi giorni dell’insurrezione, ha innescato la reazione immediata dei contadini di decine di villaggi egiziani, che si sono mossi per rioccupare quelle terre da cui la forza della legge o delle armi li aveva cacciati anni prima a seguito della contro-riforma di Wali.
E come per un’ironica legge del contrappasso, dopo il gennaio 2011 circa 65 famiglie di contadini del villaggio di Qutat Qarun nel Fayoum hanno rioccupato le terre dello stesso Youssef Wali e della sua famiglia, i quali si sono ritrovati ad assistere impotenti all’iniziativa spontanea degli abitanti del villaggio espulsi con la forza dalle loro terre nel 1997. “Ma la famiglia ha mantenuto importanti contatti tra gli apparati statali e i media ufficiali – racconta Karem Yehia, giornalista di al-Ahram che ha recentemente denunciato sulle pagine del maggior quotidiano egiziano i soprusi del ‘Dottor Wali’ – Sin dal periodo della presidenza Morsi i Wali hanno cominciato a riguadagnare potere, iniziando a muovere denunce contro i contadini e ottenendo anche l’arresto di uno degli occupanti con l’accusa di aver rubato il raccolto della terra che lui stesso aveva coltivato”. In seguito a questi episodi i contadini del villaggio hanno formato anche un piccolo sindacato, che tra tante difficoltà oggi cerca di rappresentare le istanze degli abitanti con una voce unitaria.
In modo simile, nello stesso periodo, una volta abolita la legge che vietava la formazione di sindacati indipendenti in qualsiasi settore economico del paese, in molte altre realtà rurali sono spuntati a decine nuovi sindacati contadini (80 secondo alcune fonti, oltre 300 secondo altre). Alcuni su iniziativa di partiti e movimenti politici, alcuni nati da esigenze concrete dettate da conflitti aperti, altri promossi e guidati da ONG già impegnate sulle questioni rurali, altri ancora creati e manovrati da esponenti del vecchio regime e coccolati dal ministero dell’agricoltura, i nuovi sindacati contadini rappresentano una realtà nuova, estremamente complessa e frammentata che necessita ancora di essere studiata in maniera analitica e approfondita. Ma nonostante tutti i limiti, la loro proliferazione mostra un bisogno forte di organizzazione collettiva e di rappresentanza che per decenni non ha avuto opportunità di manifestarsi, e che oggi approfitta della finestra aperta dalla rivolta del 2011 per provare a darsi forma ed espressione.
“Forse è davvero troppo presto per parlare di un vero e proprio movimento contadino in Egitto” dice ancora Karem Yehia, ma senza pessimismo. Eppure senz’altro qualcosa di nuovo sta prendendo forma. Sono decine i conflitti aperti su questioni di accesso alle risorse: acqua, servizi, infrastrutture, salute, questioni ambientali. Le proteste su questi temi si moltiplicano e prendono forme diverse, dall’azione diretta ai sit-in alle battaglie legali, sono centinaia le nuove organizzazioni e diversi tentativi sono in atto per creare forme di coordinamento più ampio tra le realtà locali, reti di attivisti solidali sono attive e pronte a mobilitarsi e a diffondere e promuovere notizie e iniziative.
Insomma, in un contesto come quello egiziano attuale, caratterizzato da un clima repressivo ai suoi massimi storici e da uno spazio politico estremamente ristretto, la vivacità e la pluralità di queste mobilitazioni dimostrano che molti contadini egiziani non sono disposti ad indietreggiare, ed anzi, si stanno preparando ad un futuro prossimo di nuovi e più intensi conflitti. Per loro, in altre parole, la ‘Primavera Egiziana’ non è iniziata, e non si è conclusa, con l’esperienza di Piazza Tahrir. Nena News