Cinque artiste arabe e africane danno vita ad un progetto sperimentale tra pittura, fotografia, video e disegno. “Life during Wartime”: un montaggio con una trama unica
di Cecilia D’Abrosca
Roma, 28 dicembre 2016, Nena News – “Life During Wartime” è il titolo dell’esposizione di cinque artiste donne, di origine araba e africana, alla Diane Rosenstein Gallery a Los Angeles, fino a dicembre: Sadie Barnette, Aaron Fowler, Farrah Karapetian, Shiri Mordechay e Tschabalala Self. L’idea è quella di dar vita a un progetto sperimentale che coinvolga la pittura, il disegno, gli audiovisivi e la fotografia, per esplorare il senso della vita umana in tempo di guerra.
Quali sono gli stravolgimenti che colpiscono la quotidianità? In che termini viene riformulato il concetto stesso di vita? Il linguaggio dell’arte si cimenta in una risposta, utilizzando immagini, sonorità, testo.
I Talking Heads (David Byrne, Chris Frantz, Jerry Harrison, Tina Weymouth), qualche anno fa, nel 1979, realizzano “Life During Wartime”, ricorrendo attraverso la scrittura a queste immagini:
Heard of a van that is loaded with weapons, Packed up and ready to go
Heard of some grave sites, out by the highway, A place where nobody knows
The sound of gunfire, off in the distance, I’m getting used to it now
Lived in a brownstone, lived in a ghetto, I’ve lived all over this town
This ain’t no party, this ain’t no disco, This ain’t no fooling around
No time for dancing, or lovey dovey, I ain’t got time for that now
Il collegamento testuale con le opere che compongono la mostra, è immediato. “Life During Wartime” è un’opera di “montaggio” laddove il racconto si sviluppa lungo un’unica trama improntata a illustrare le radici del conflitto politico connesso al genere, alla diversità etnica, alla condizione economica; aspetti che, caratterizzano la vita di minoranze e di gruppi comunitari. L’interazione visiva, stimolata durante la mostra, sottintende un passaggio filosofico ispirato da riflessioni sul vivere in comune, sulle esistenze di artiste-donne e sul loro rapporto con l’arte, la cui applicazione, a fini pratici, sfocia nella rappresentazione di ciò che la guerra causa e determina.
Il conflitto, l’alterazione dei luoghi e delle pratiche quotidiane. In che modo la guerra sconvolge l’urbanistica della città? Qual è il cambiamento più vistoso, nella percezione del tempo e dello spazio, apportato da una guerra? Ciascuna delle cinque artiste sceglie di condividere ed estendere la propria visione attraverso una espressione artistica personale, conservando un’aderenza ad una narrativa che tenga conto degli effetti, a breve e a lungo termine, dell’evento traumatico, individuato nella guerra.
Segue una breve presentazione delle cinque artiste, associando a ciascuna le peculiarità della propria arte e il contributo all’opera finale:
Sadie Barnette lavora con le subculture, muovendosi lungo una prospettiva contraddistinta da realismo, ripercorrendo la quotidianità e la trascendenza da essa. È vicina alla fotografia, al disegno e alle installazioni su larga scala. Rivolge la sua attenzione a luoghi non convenzionali, che agevolano la costruzione identitaria: storie familiari, celebrazioni, forme storiche di resistenza. Sadie Barnette crea composizioni visuali che inglobano oggetti di varia natura, disposti assieme, a formare testo visivo e verbale, a dimostrare la necessità della poesia e dell’astrazione all’interno della vita urbana, nonchè l’importanza della libera espressione come atto politico che muove verso un obiettivo ulteriore, non individuale, ma sociale. Barnette anima la mostra, creando un sito specifico di installazioni, che include la scultura e la fotografia.
Tschabalala Self è una pittrice cresciuta ad Harlem. Il suo percorso artistico concerne il significato iconografico attribuito al corpo delle donne nere nella cultura contemporanea. I suoi ritratti esplorano la sfera emozionale e l’impatto psicologico del corpo femminile black nelle rappresentazioni, affidate di volta in volta, ai vari linguaggi artistici e figurativi. Il suo ruolo è quello di curare l’aspetto legato ai “corpi”, alla corporeità inscritta, ai mutamenti dei corpi femminili, durante e dopo le guerre.
Farrah Karapetian pratica la fotografia di corpi in movimento. I suoi primi lavori attengono alle migrazioni e alle barriere fisiche che ostacolano i flussi. È molto significativo un suo lavoro in fotogrammi, che registra quanto accade lungo i confini tra America del Nord e Messico (Stowaway, 2009), ed un altro, parimenti espresso in fotogrammi, basato su frammenti del muro di Berlino (Soivenir, 2009). Le fotografie che ha messo a disposizione hanno come soggetto uomini e donne in transito che si allontanano dalle zone di guerra.
Shiri Mordechay, cresciuta in Nigeria, vive a Brooklyn. Lavora con inchiostro, carta e acrilico, creando paesaggi figurativi che si collocano al margine tra pittura e scultura. I suoi lavori invitano a percorsi introspettivi e a sperimentare stati della mente dominati da emozioni diverse. La sua presenza artistica, è forte attraverso il disegno e la pittura, mentre il focus d’attenzione è catturare le emozioni umane innescate dalla guerra.
Aaron Fowler, nata e cresciuta a San Louis, attualmente vive ad Harlem. Assembla media diversi e linguaggi artistici, dunque, nuove tecnologie e pittura, tentando di riprodurre articolate biografie familiari, in cui alcuni componenti sono costretti a trasferimenti non temporanei.Il suo lavoro, finora, si concentra sulle famiglie americane, parte di esso è contenuto in Trust+Respect=Love (2016). In vista dell’allestimento di Life During Wartime alla Diane Rosenstein Gallery a LA, fino a dicembre, la sua ricerca si è spostata in aree geografiche conflittuali, come quella mediorientale. Nena News