Dal fallito golpe del 2016 oltre 125mila militari, accademici, dipendenti pubblici sono stati arrestati o licenziati. Con lo stato d’emergenza Erdogan ha fatto piazza pulita del dissenso: decine di migliaia di persone espulse dal mercato del lavoro, aggredite da linciaggi mediatici e politici ed escluse dalla società
di Murat Cinar – il Manifesto
Roma, 23 febbraio 2022, Nena News – Durante lo stato d’emergenza, dal 2016 al 2018, in Turchia sono state sospese, licenziate, denunciate e arrestate più di 125mila persone. Mentre qualcuno è riuscito a tornare a condurre la vita di prima, per, la maggior parte iniziava una nuova vita da morte civile.
CROCIATA NEL MONDO ACCADEMICO. Come disse in diretta tv già nel mese di febbraio del 2016 Cem Küçük, giornalista/propagandista del governo centrale: «Non c’è bisogno di rivolgersi alla giustizia, dobbiamo attivare quei meccanismi che portano queste persone alla morte civile».
Nella sua dichiarazione Küçük si riferiva a quei 2.212 accademici universitari firmatari dell’«appello per la pace», diffuso a gennaio del 2016 in cui invitavano lo Stato turco e le forze armate del Pkk a fermare gli scontri in atto da circa sei mesi e a riaprire il canale del dialogo. Da quel momento fino ad oggi una buona parte degli «accademici per la pace» vive in quello stato da morte civile che gli aveva augurato Küçük.
Cansu Akbas Demirel è una dei firmatari dell’appello: «Siamo stati definiti come dei traditori della patria, abbiamo subito diversi attacchi verbali e fisici da alcuni colleghi e studenti. Siamo stati licenziati». Anche Asli Davas è una dei firmatari e descrive così la situazione in cui si trova: «Restare senza lavoro comporta un danno economico e l’esclusione sociale è una situazione terribile. Siamo stati definiti terroristi e siamo diventati bersagli grazie al linciaggio mediatico e politico che abbiamo subito».
Feride Aksu Tanik, un’altra firmataria: «Ci hanno impedito di lasciare il Paese. Siamo stati espulsi da diversi comitati accademici e dalle commissioni di ricerca internazionale. In più siamo stati privati dell’accesso a fondi e bandi».
A tutto questo va aggiunta l’esclusione totale dal sistema della provvidenza sociale, la fedina penale sporca (anche se non condannati in via definitiva), l’impossibilità a ottenere un impiego pubblico e, come unica soluzione, un lavoro senza nessun tipo di contratto e assicurazione. Secondo una relazione preparata dalla Fondazione per i Diritti umani di Turchia (Thiv), un «accademico per la pace» su tre si trova in depressione e coloro che sono tornati a lavorare hanno subito mobbing ed esclusione anche nel mondo accademico.
Forse Mehmet Fatih Tras è l’esempio più estremo di ciò che affrontano queste persone. Dopo l’espulsione dall’Università di Cukurova, per la firma messa a quell’appello, per un lungo periodo è rimasto senza lavoro ed è entrato in una depressione che l’ha portato, nel febbraio 2017, a soli 34 anni al suicidio.
EX ALLEATI, NUOVI NEMICI. La repressione avviata prima del fallito golpe del 2016 ha trovato una base legale grazie allo stato d’emergenza. Le misure radicali sono state giustificate per motivi di «sicurezza nazionale». Ovviamente a finire nel mirino c’era anche la comunità religiosa guidata da Fethullah Gulen, imam e predicatore anticomunista nonché ex alleato del Partito dello Sviluppo e della Giustizia (l’Akp del presidente Erdogan) che strozza la Turchia da ormai quasi 20 anni.
Il fallito golpe del 2016, secondo il governo centrale, era opera di Gulen e dei suoi fedeli presenti in diversi apparati del sistema burocratico, come l’esercito. Inoltre secondo l’Akp, Gulen si era mosso in collaborazione con diversi attori stranieri e locali, come gli Stati uniti e gli Emirati.
La situazione senz’altro è stata frutto di una resa dei conti tra Gulen e Akp, i due attori di un progetto fascista e mafioso in corso da parecchi anni. In ogni caso, lo stato d’emergenza dichiarato dopo il fallito golpe è stato una grande occasione per il governo per far fuori numerosi membri della comunità di Gulen. Ma ad essere colpite sono state numerose persone che non c’entravano con questa faida interna.
Più di 20mila membri dell’esercito e più di 16mila studenti delle scuole militari sono stati sospesi e/o arrestati. Ragazzi minorenni, in diversi casi trascinati fuori nella notte del 15 luglio con svariati raggiri, da quasi sei anni conducono una vita molto difficile. 355 di questi sono tuttora in carcere, anche se in vari casi i giudici hanno confermato la mancanza di relazione tra questi e la comunità di Gulen. Umit Can Ozorman è uno dei giovani colpiti dai decreti di legge (Khk) emessi durante lo stato d’emergenza direttamente dal Presidente della Repubblica.
«Abbiamo una macchia su di noi, nessuno ci dà lavoro, ci sono ancora diverse inchieste di sicurezza contro di noi. Io pretendo un risarcimento dei danni e rivoglio la mia vita». Ozorman è anche l’autore del libro Soffro di sclerosi multipla, signore, in cui racconta ciò che ha vissuto e la malattia che l’ha colpito dopo quello che gli è capitato. «Sono ormai invalido al 48%. In questo libro cerco di spiegare la situazione in cui ci troviamo noi, ex studenti dei licei militari».
Ozorman la sera del golpe è rimasto nel dormitorio del liceo militare e dice di non aver mai fatto parte né della comunità di Gulen né di altre: «Sono alla ricerca della giustizia e di una vita normale, come quella di prima. Lotto anche perché regni la meritocrazia in questo Paese».
KHK, UN’ ARMA ANCHE CONTRO LA SINISTRA. Con i decreti legge, il governo centrale è riuscito a zittire anche le voci dell’opposizione di sinistra. Un esempio: 1.602 insegnanti appartenenti al sindacato Egitim-Sen sono stati sospesi e licenziati. In totale, durante lo stato d’emergenza, sono stati chiusi definitivamente 19 sindacati.
Per protestare contro questa ondata di repressione, in Piazza Yuksel a Ankara da circa cinque anni diverse persone scendono in strada. La risposta della polizia è sempre la stessa: portare in commissariato i manifestanti e rilasciarli lo stesso giorno oppure il giorno dopo. Le proteste vengono spesso accerchiate da transenne alte per impedire la partecipazione dei passanti. Azioni di questo genere si sono diffuse in diverse città e sotto diverse forme in questi anni.
Turkan Albayrak è una di queste persone, lavoratrice nel settore della sanità e sindacalista. Il 15 luglio del 2018 ha scoperto di essere una delle vittime dei Khk, così ha perso il suo lavoro. Ha quasi immediatamente deciso di fare un presidio permanente dentro il parco cittadino Ogretmenler, nel Comune di Sariyer a Istanbul, località in cui lavorava. Albayrak per 22 mesi ha resistito con 200 proteste, finendo in detenzione provvisoria 102 volte.
Dopo questa lunga lotta ha ottenuto l’annullamento della sua sospensione e tre anni dopo, il 28 dicembre del 2021, la Corte costituzionale ha risposto al suo ricorso definendo ciò che ha subito come un «tentativo per impedire la libertà di espressione» e condannato il ministero della Giustizia a pagarle 8mila lire turche di risarcimento danni (516 euro).
Osman Zabun, presidente provinciale dell’Akp per la città d’Isparta, a ottobre 2016, in diretta tv pronunciò queste parole, in merito alle persone colpite dai decreti emessi durante lo stato d’emergenza: «Questo paese non ha nulla da offrire loro, possono andarsene oppure mangiare le radici degli alberi per sopravvivere». Le parole di Zabun rappresentano la situazione in cui si trovano migliaia di persone oggi in Turchia, private di una serie di diritti, emarginate, rese povere, depresse, invisibili e spinte verso la morte civile. Nena News